La Chiesa nella Rivoluzione Cubana tra Luci e Ombre. Antonello Cannarozzo.

15 Novembre 2024 Pubblicato da Lascia il tuo commento

 

 

 Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curia, Antonello Cannarozzo, a cui va il nostro grzaie, offre alla vostra attenzione queste considerazizoni sulla situazione della Chiesa cattolica a Cuba. Buona lettura e condivisione.

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La Chiesa nella rivoluzione cubana tra luci e ombre

 

Una serie di articoli per non dimenticare cosa è stato e cos’è tutt’ora il comunismo non solo per interi popoli, ma per la Chiesa e il suo martirio

 

Antonello Cannarozzo

 

Sulla persecuzione dei cristiani a Cuba ci sarebbe da scrivere tantissimo, più di sessant’anni di castrismo non sono certo pochi, ma ci si accorge ben presto che non è solo la religione, per quanto ci riguarda, ad essere ‘nemica’ del regime comunista, ma è un intero popolo a cui sono state tolte le libertà fondamentali, a cui si aggiunge una miseria ormai endemica, dove manca di tutto.

Certo non vogliamo nascondere l’embargo degli Usa con le sue conseguenze, ma questo non fa certo dimenticare le scelte economiche folli e per questo fallimentari, dove anche quel po’ di ricchezza del Paese è stata distrutta per velleità ideologiche e tanta impreparazione. In questo contesto il tema della Chiesa a Cuba diventa centrale specie in una nazione dove prima di Castro il 65% della popolazione era di fede cattolica.

Qual è stato allora il suo ruolo e come è sopravvissuta in questi sei decenni dopo tanti soprusi e angherie? Possiamo dire che indubbiamente la Chiesa ha svolto un ruolo importante, ma anche difficile dovendosi barcamenare in un regime poco affidabile e sempre pronto a far pagare cara ogni forma di indipendenza, soprattutto del pensiero.

Un ruolo non certo secondario in questo contesto caraibico è stato svolto in tempi recenti da tre papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e per ultimo Francesco recatisi sull’isola in visita pastorale, dopo decenni di ostracismo, ma strumentalizzati dal regime come un omaggio a Fidel Castro e alla sua “fallimentare” rivoluzione cubana.

L’ultima volta di un papa a Cuba risale al 2015. Fu una breve visita quella di papa Francesco nel suo viaggio verso gli Stati Uniti. Trenta minuti di colloquio a casa del dittatore, ormai in pensione, dopo la celebrazione della Messa avvenuta, come fu per papa Giovanni Paolo II, nella piazza della Rivoluzione dell’Avana.

Papa Francesco con la sua tipica improvvisazione diplomatica nel discorso sull’isola aveva espresso “sentimenti di speciale considerazione e rispetto a Fidel”, una dichiarazione certo di cortesia verso l’ospite, ma che aveva creato un forte malumore tra le file dei dissidenti, specie tra coloro che avevano ancora aperte le ferite sanguinanti delle persecuzione e, come se ciò non bastasse, ancora qualche mese dopo, alla morte di Fidel, il papa affermò che la sua morte è stata una “triste notizia” e che stava soffrendo e pregando per il suo riposo.  In breve un altro schiaffo per tutti i dissidenti e non solo cattolici.

Un anno dopo il settimanale Asia News pubblicò una lettera di un anticastrista che dopo aver spiegato cosa era il comunismo affermava:” Fa male vedere che lo stesso regime che si beffava (e si beffa) di Dio, della chiesa, dei religiosi e delle religiose e il Papa, abbia poi ricevuto Francesco fingendo di dare l’immagine di un governo rispettoso degli esseri umani e dei loro diritti. E quello che mi fa più male è sapere che esso non ha alcuna intenzione di cambiare”.

Nel testo si citavano ancora le schedature dei semplici fedeli che volevano partecipare alla Messa con Francesco molti dei quali furono messi in stato di fermo perché sospettati di essere contro il regime.

Il timore delle autorità, in verità, era che si ripetesse ciò che avvenne nel 1998, quando Giovanni Paolo II, durante la sua omelia pronunciata durante la Messa all’Avana, proferì per ben tredici volte la parola “libertà” con i fedeli che, in forma ritmata, iniziarono a scandire “Libertad! Libertad”. Era troppo per il regime.

Tre anni prima di papa Francesco, nel 2012, fu Benedetto XVI a incontrare Fidel, ma assai diplomaticamente non fece alcuna visita a domicilio, ma solo un incontro in nunziatura con il Leader Maximo che per omaggiare la presenza del Pontefice, ripristinò il Venerdì Santo come festa civile, dopo tanti decenni.

Tuttavia l’incontro più significativo, perché il primo, fu quello avvenuto nel 1998, quando Castro accolse come atto di gratitudine ai piedi della scaletta dell’aereo, l’ormai anziano Giovanni Paolo II che da tempo aveva espresso il desiderio di visitare l’isola e incontrare i suoi governanti come azione pacificatrice nei confronti della Chiesa locale e finalmente fu accontentato, ma non dimentichiamo però che dopo la caduta dell’Urss, Cuba aveva bisogno di un altro interlocutore a livello internazionale che la facesse uscire dall’isolamento e il Vaticano poteva essere la carta vincente.

Appena atterrato, Wojtyla pronunciò una frase che rimase storica: “Possa Cuba aprirsi con tutte le sue magnifiche possibilità al mondo e possa il mondo aprirsi a Cuba”, inoltre aveva chiesto, senza mezzi termini, la fine dell’embargo statunitense, ma anche più libertà per il popolo e per la Chiesa dopo anni di sofferenze.

Fidel per ringraziarlo per la visita ripristinò la festa del Natale come festa civile dando più libertà alla Chiesa, sempre però sotto il ferreo controllo delle autorità statali, fu permesso, inoltre, di diffondere Religion en Cuba, una newsletter quindicinale, sola pubblicazione indipendente in tutto il Paese.

Quel viaggio eccezionale, dall’esito esito positivo per Cuba, lo fu un po’ meno per il papa, che ammise ai suoi collaboratori di aver sperato di “poter fare come in Polonia“, cioè far cadere il regime, come era successo nel suo Paese dopo i suoi sette viaggi.

Le visite sull’isola dei papi, se da un lato hanno aperto un dialogo con il regime, di concreto ancora poco o nulla è stato fatto in merito alla libertà d’espressione non solo per la Chiesa, ma per il popolo cubano tutto ancora ancora prigioniero di un regime.

Una situazione sempre difficoltosa, come ha dichiarato il vescovo Mons. Emilio Aranguren che, nonostante i tanti problemi, la “La Chiesa a Cuba è viva, unita e povera“, quest’ultima non tanto e non solo per seguire la pastorale di papa Francesco quanto  perché mancano i soldi per mantenere gli edifici, costruirne di nuovi, difficoltà per poter stampare opuscoli ad uso della catechesi sempre più necessaria ed aiutare chi soffre; ad oggi nell’isola e, dopo una politica di oppressione, rimangono solo 374 sacerdoti con 27 seminaristi, dunque un sacerdote ogni 20.872 persone. Miracolosamente, è proprio il caso di dire, nonostante anni di intolleranza nei suoi confronti, questa realtà cubana è più viva che mai.

Da un lato, la scarsità di sacerdoti e di strutture ecclesiali in molti luoghi ha portato a una importante partecipazione dei laici alla vita della Chiesa, ma anche effetti dolorosi, come l’inattuabilità di celebrare la Messa ovunque.

Nonostante le difficoltà, il presidente della Conferenza dei vescovi cattolici di Cuba ha sottolineato che la comunità ecclesiale cubana è attiva, creativa e speranzosa tanto che ogni anno sempre più cubani vogliono battezzarsi, malgrado la politica atea e marxista imperante da anni sull’isola con il rischio di angherie in prima persona.

Al di là della bellezza dell’isola, si celano veri drammi umani; ancora si viene perseguitati, si fanno pestaggi e carcerazioni lampo, soprattutto, le esecuzioni non sono mai finite.

L’associazione internazionale Freedom House ha calcolato che dal 1959 ci siano stati più di 10 mila morti per esecuzioni sommarie, persone morte in carcere o scomparse nel silenzio delle autorità.

Anche la Commission Cubana de Derechos Humanos y Reconciliacion National, sorta più di trent’anni fa, nel 1987, è una organizzazione fondata per segnalare la condizione dei detenuti, contestare pubblicamente la repressione e dare loro una assistenza legale gratuita specialmente ai dissidenti finiti nelle mani del regime.

Secondo questa Commission, negli ultimi tre anni, il trend delle carcerazioni per motivi politici si è sempre mantenuto in crescita, nonostante dell’indulto-spot per 787 detenuti decretato da regime per far contento il papa Francesco. Ma c’è anche una circostanza commovente poco conosciuto al grande pubblico che non dobbiamo dimenticare: le Damas de Blanco che come le più conosciute madri de Plaza de Majo in Cile, sono mogli e famigliari dei dissidenti imprigionati dal regime di cui non si sa più nulla, la cui leader, Laura Pollan, è morta alcuni anni fa in circostanze anche per lei ancora da chiarire, oggi ancora ignorate dal regime se non perseguitate.

Lo storico viaggio di Wojtyla che tante speranze aveva aperto, già pochi anni dopo, nel 2003, ci furono arresti selettivi che colpirono non solo tanti cittadini, ma anche economisti e giornalisti di formazione comunista.

Si è detto che questi viaggi apostolici si sono resi indispensabili per aprire un dialogo con il governo dell’Avana e ridare così un minimo di apertura alla Chiesa locale, da troppi anni soggetta ad ogni tipo di restrizione anche violenta, comunque qualcosa certamente è cambiato, ma sempre con il contagocce del regime.

Se la Chiesa vive i suoi problemi, la realtà vera a Cuba è ancora una situazione drammatica che dura da sessant’anni. Secondo la dissidenza oggi il salario medio di un operaio cubano è di circa nove dollari al mese; tutto il cibo è razionato; il latte è distribuito solo ai bambini al di sotto dei sette anni; i medici ospedalieri hanno a disposizione solo una saponetta al mese. Per sopravvivere, tutti sono costretti a porsi nell’illegalità ricorrendo al mercato nero. Vedendo le immagine che arrivano anche sui nostri schermi la situazione non è poi così esagerata.

La mancanza di libertà voluta dal regime, la povertà alimentare, scarsi beni di prima necessità, energia elettrica a singhiozzo e ora anche la crisi ospedaliera (fiore all’occhiello per decenni dei castristi, ndr) trova un’isola in fermento, come indicato da molti analisti politici, purtroppo non sappiamo come e quanto potrà reggere ancora il regime davanti a un evidente fallimento durato più di sessant’anni anche se per loro la colpa è sempre degli altri.

 

Il caos rivoluzionario

 

Per inquadrare meglio la situazione della Chiesa locale, bisognerà fare un accenno alla situazione storica. Tutto inizia il 16 febbraio del 1959 quando Fidel Castro prese il potere sostituendo il dittatore Fulgentio Batista e proclamandosi primo ministro, carica in seguito abolita. Finalmente Cuba non era più la succursale del gioco d’azzardo, era libera dal dittatore e dai suoi padroni: gli Stati Uniti.

Le prime settimane di potere dei castristi furono convulse, ma il primo problema di ogni vero potere rivoluzionario non è organizzare un governo, ma quello di eliminare inizialmente i nemici, interni ed esterni, della nascente nazione. Vengono così passati per le armi un centinaia tra soldati e poliziotti, e in quei giorni non mancarono anche vendette personali che nulla avevano a che fare con la recente lotta per la libertà.

Furono chiusi, casinò, bar, case d’appuntamento, proibito il gioco d’azzardo e se questo era un riscatto per la dignità dell’isola, con le prime violenze e la mancanza di una vera democrazia promessa, iniziarono le prime delusioni.

Fin dai primi giorni ondate di arresti e punizioni esemplari erano all’ordine del giorno, situazioni che vedranno il “mitico” Che Guevara come il più attento assertore per le fucilazioni di massa e promotore dei “villaggi per prigionieri”, veri campi di concentramento. Il primo lager tropicale, personalmente creato dal Che, è il campo di lavori forzati di Guanahacabibes, destinato a “rieducare” le persone refrattarie alla rivoluzione.

“A Guanahacabibes – diceva – inviamo coloro che devono stare in prigione, coloro che hanno commesso reati contro la morale rivoluzionaria, sia gravi che lievi” affermò il Che in una riunione del Ministero dell’Industria nel 1962 per deportarvi intere famiglie accusate di aver collaborato con il vecchio Stato o per aver preso parte alla rivoluzione dei campesinos di Escambray agli inizi degli Anni Sessanta.

La rivolta dei Monti Escambray, un episodio epico e poco conosciuto ormai, era nata dagli oppositori di Fidel Castro, spesso ex soldati di Batista, contadini a cui erano state tolte le loro terre e anche molti ex guerriglieri che avevano combattuto addirittura al fianco di Castro ed ora, in una lotta assai dura per la libertà dell’isola. Una rivolta che andò avanti, con alterne vicende, dal 1959 fino alla fine del 1965, quando in pratica i rivoltosi furono tutti eliminati.

Insomma non sempre la Rivoluzione fu accolta a braccia aperte. I cubani da una dittatura erano passati ad una altra ben più dura e con mezzi di persuasione sbrigativi, non solo, nei confronti degli oppositori, ma anche di chi aveva simpatizzato per la Rivoluzione.

Un esempio tra i più noti è il caso di Humberto Matos che combatte eroicamente contro Batista, ma venne condananto, una volta al potere, ad una lunga pena detentiva, pur essendo considerato un eroe. La sua colpa era di fare ombra politica al nascente leader maximo, Fidel Castro e non fu il solo l’ex rivoluzionario a cadere nelle maglie della violenza di Stato.

Leggendo i documenti dell’epoca scopriamo che in questo frangente, a proposito dell’iniziale caos rivoluzionario, lo stesso Castro non sapeva nemmeno lui cosa voleva fare, non aveva una vera strategia di governo e la sua ideologia era vaga: ripeteva più volte pubblicamente di non essere comunista oppure dichiarava: “attaccheremo l’analfabetismo, la corruzione, il vizio, il gioco e le malattie“, ma come fare era un tutto un altro discorso specie in una circostanza economica drammatica che aveva lasciato Batista nel suo ultimo anno di governo. La nazione era indebitata per ottocento milioni di dollari, e dagli Stati Uniti importava più generi alimentari di qualunque altro Paese sudamericano, per non parlare delle ingenti fughe di capitali verso l’estero e con una politica fiscale opprimente specialmente per i più poveri.

Occorreva una classe dirigente politicamente valida, ma questa non arrivò mai ieri come oggi, sull’isola.

Dopo questa panoramica della situazione politica, per ciò che riguarda la Chiesa e i suoi uomini, dobbiamo aprire un capitolo assai complesso perché inizialmente si comportò, passateci il termine, come le “Mosche cocchiere” narrate da Fedro, o anche “utili idioti” una storia che si è ripetuta soprattutto dell’America Latina, illudendosi di poter trattare con dittatori di qualunque convinzione, come quando il regime attuò la riforma agraria che videro i prodromi di una forma di comunismo. Il progetto suscitò vibrate proteste da parte dei contadini, ma fu proprio la Chiesa locale a dichiarare che la riforma si muoveva nel senso di giustizia sociale cristiana, calmando gli animi e aiutando di fatto il regime, ma quando, dopo l’avvicinamento con l’Urss si capì chiaramente cosa stava succedendo, in una manifestazione organizzata da alcuni vescovi parteciparono, al di là di ogni previsione, oltre un milione di persone al grido: “Noi vogliamo una Cuba Cattolica! Cuba sì, Russia no!”. Anche questa volta la Chiesa ufficiale volle attenuare i toni, indicando addirittura che “nessun Governo, da quando noi siamo presuli, ha mai concesso tante facilitazioni alla Chiesa”. Ecco le “Mosche cocchiere”.

Molti ambienti cattolici, e ancor più apertamente quelli protestanti, erano inizialmente favorevoli alla svolta castrista per l’isola, per poi pentirsene amaramente, e, a differenza di quanto si legge ancora oggi su una loro ipotetica contrapposizione alla Revolution, al contrario furono a favore di essa e contro Battista, ma andiamo con ordine.

C’era grande speranza di progresso anche tra tanti cristiani che accompagnava la fama degli uomini di Fidel Castro, insieme all’ entusiasmo per un futuro certamente migliore.

La Cuba degli anni prima dei rivoluzionari era un’isola “felice” o per meglio dire “allegra”, in pratica una dependance degli Stati Uniti dove si trovavano a buon mercato, gioco d’azzardo, donne, corruzione e quanto di meglio poteva offrire l’isola.

Molti cubani si sentivano umiliati pensando come era ridotta la loro nazione, in un vero postribolo, tanto che già agli inizi degli anni ‘50 cominciavano le prime proteste di piazza non solo contro Fulgentio Batista, ma anche contro gli americani, che avevano sempre considerato Cuba come il luogo dove soddisfare tutti quei vizi considerati sgradevoli in patria. Insomma, l’isola non era certo una nazione da portare come esempio, ma, come dissero alcuni profughi fuggiti dall’isola, “almeno mangiavano tutti”.

Washington, da parte sua, sembrava preoccuparsi solo di una potenziale svolta verso il comunismo di questi gruppi di rivoluzionari e di perdere così le proprietà cubane dei suoi cittadini, non comprendendo che il vento della storia stava ormai cambiato.

 

La chiesa e gli inizi della rivolta castrista

 

Tra i primi a ribellarsi contro il regime di Batista troviamo, oltre a un giovanissimo Fidel Castro figlio della buona borghesia locale, anche uomini di chiesa.

Tanti sacerdoti locali, specialmente francescani, a differenza di quelli stranieri, cominciarono a fraternizzare con i primi gruppi di guerriglieri che cominciavano ad organizzarsi nelle montagne dell’isola. Tanto era l’entusiasmo di questi religiosi che ebbero dai loro vescovi, anch’essi contro Battista, l’autorizzazione di essere in qualche modo dei “cappellani” al seguito dei rivoluzionari perché, ricordiamolo, fino alla presa del potere nessuno, compreso Castro, come accennato, era comunista nel senso ideologico, tanto che lo stesso leader massimo aveva studiato presso i gesuiti.

Molti cattolici parteciparono attivamente alla Revolution avendo incarichi importanti nella lotta, specie nel del Directorio Revoluzionario, con una struttura a L’Avana. Diversi suoi dirigenti, ormai troppo esposti, dovettero entrare in clandestinità e altri dettero anche la vita per la causa della libertà.

La risposta del governo, davanti a questa collaborazione con i castristi, non si fece attendere nei confronti della Chiesa attuando una serie di angherie. Ma i tempi ormai erano maturi per il cambiamento.

Nel 1959 la maggioranza dei cubani vedeva nei rivoluzionari l’unica ancora di salvezza e di pace, dopo anni di violenze da ambo le parti.

La Chiesa aveva fatto la sua parte in questo cambiamento, tanto che lo stesso Fidel dichiarò alla presa del potere che “I Cattolici di Cuba hanno prestato la loro più decisa collaborazione alla causa della libertà”. Ma questo idillio finì ben presto.

Era un periodo certamente convulso, bisognava costruire un nuovo Stato, già impresa colossale di per chiunque sia al potere, ma se non ci sono idee chiare e soprattutto uomini che sappiano gestire questa trasformazione, il fallimento è assicurato come infatti fu per la povera Cuba con i famosi tentativi per diversificare la produzione dei campi dalla canna da zucchero, l’unica ricchezza del Paese. Piani destinati a fallire a causa della mancanza di organizzazione e di dirigenti capaci di programmare l’impresa, un po’ come il famoso “Balzo in Avanti” dei cinesi negli stessi anni. Vere tragedie di uomini e di mezzi.

La rivoluzione cubana, stranamente, non suscitò nel governo Usa, come abbiamo scritto, quasi alcun interesse perché si credeva inizialmente che questo Fidel Castro non sarebbe durato a lungo e una eventuale scelta comunista non li preoccupava più di tanto anche se alcuni uomini del governo sapevano di perdere, forse per sempre, il comando dell’isola.

Paure assai presenti se pensiamo che eravamo in piena Guerra Fredda, ma nonostante la loro potenza, fecero un grave errore con la piccola Cuba rifiutando ogni vero possibile appoggio economico nella ricostruzione e anzi, come racconterà lo stesso Fidel, furono trattati con grande sufficienza. Così, più per necessità, almeno agli inizi, che per convinzione, Castro si avvicinò all’Unione Sovietica ed era solo questione di tempo diventare un regime marxista leninista.

La Chiesa ancora sperava che ciò non accadesse, ma sapeva benissimo che questa alleanza con il marxismo significava a breve anche la fine delle libertà appena conquistate. Le previsioni non erano sbagliate, ma preferì attendere gli avvenimenti.

 

Cuba tra Usa e Urss

 

Il malcontento cominciava sempre di più a serpeggiare tra la popolazione. Non si vedevano i frutti del tanto sospirato cambio di regime e ancora una volta fu sempre la Chiesa, già colpita dai primi soprusi da parte del governo, a calmare gli animi, pure contro la volontà di molti religiosi, si disse allora che fu una scelta dettata dal quieto vivere e in questo modo salvò la traballante Revolution, nonostante i danni assai evidenti fatti in pochi anni, sostenendo le ragioni del governo, almeno in parte, affermando che era pura propaganda che la nazione potesse mai un giorno diventare comunista o, almeno, voleva crederci.

A togliere ogni illusione, il   27 luglio del 1960, in un comizio in modo chiaro e senza fraintendimenti, parlando dell’amicizia con l’Unione Sovietica, affermò: “Chi è anticomunista è antirivoluzionario”.

Una dichiarazione che toglieva ogni possibile speranza di miglioramento, il sogno di una Cuba veramente “libre” era finito per sempre.

Le tensioni crebbero nei mesi seguenti: il clero in varie occasioni emanò delle dichiarazioni contro il comunismo come quella del vescovo Pérez Serantes che denunciò quell’ideologia come “il grande nemico del Cristianesimo” e con una grande ingenuità chiesero a Fidel di sconfessare il comunismo.

Fu questo l’ultimo atto di un lungo equivoco tra Castro e la Chiesa tanto che quest’ultimo rispose che “il Governo non ha nulla di cui rendere conto ai Vescovi”.

Ad aggravare ancora di più la situazione politica ed economica, fu l’invasione, nel 1961, di soldati Usa che insieme a esiliati cubani provarono a sbarcare nella Baia dei Porci, per una insurrezione che purtroppo per loro non avvenne e finì miseramente in tragedia.

Iniziarono da qui le famose sanzioni Usa che accompagneranno la vita dell’isola fino ai giorni nostri. Un capitolo a parte merita anche la famosa “Crisi dei missili a Cuba” nel 1962, lo scontro epico tra Usa e Urss di cui approfondiremo in un prossimo articolo per il ruolo che ebbe allora il Vaticano.

Dopo questi fatti, si inasprì la situazione economica- finanziaria e politica con forme di austerità draconiane e un rincaro sui generi di importazione anche dell’80%, ricordiamo che l’isola importava quasi tutto dagli Usa.

Nel giugno del 1962 oltre 200.000 cubani lasciarono l’isola, il 3% della popolazione, non solo per motivi di dissenso politico, ma anche preoccupati dalla grave e persistente crisi economica. In una emergenza così grave il regime, pur cercando di andare verso le persone più disagiate con aiuti alimentari, avvertiva un crescente malcontento e corse ai ripari con azioni che si tradussero ben presto, come ogni dittatura, in carcerazioni, processi farsa, confisca di quelle poche terre o aziende private ancora libere e, infine, la classica chiusura dei giornali di opinione che erano critici verso il regime castrista, insomma attuarono il vecchio detto: meglio prevenire che combattere.

La persecuzione religiosa si rafforzò nei mesi successivi: tutti i collegi religiosi furono chiusi, le loro sedi sequestrate, tra cui quello gesuita di Belen dove Fidel aveva compiuto gli studi. Il ‘leader maximo’ invitò inoltre: “I parroci falangisti si preparino a far fagotto”, insomma tutti quelli che lo contestavano, a seguito di questo “invito” furono espulsi dall’isola 131 sacerdoti diocesani e religiosi.

Con cinismo da regime, uno dei metodi adottati era di dare apparente libertà ad ogni cubano di professare la propria religione, salvo poi subire misure di ritorsione come il divieto d’accesso alle università, alle carriere amministrative, concorsi, alloggi e quant’altro. In questa situazione chi aveva la possibilità trovò ancora una volta rifugio all’estero.

 

Illusione chiamata Revolution

 

Dopo tante illusioni, i cristiani si sentivano traditi, non mancarono molte manifestazioni di piazza spontanee contro la deriva repressiva del governo fin dai primi anni ma chi vi partecipava era, ovviamente, un venduto agli americani o un fascista senza minimamente domandarsi il perché di tanta ribellione.

I cattolici certo non furono risparmiati. Come accennato, furono chiuse associazioni ecclesiastiche, giornali, perquisizioni di chiese e conventi, molti furono arrestati e molti altri caddero sotto il fuoco dei plotoni di esecuzioni al grido di “Viva Cristo Re” che ricordava molto la rivoluzione messicana degli inizi del secolo.

Ancora 135 religiosi furono di fatto obbligati di lasciare l’isola, altri 500 avevano già iniziato la via dell’esilio, per altri ancora, sacerdoti e semplici fedeli andarono ad affollare le Unità Militari di Aiuto alla Produzione, un modo gentile di definirli dei veri e propri Gulag di stampo sovietico, simili ai villaggi ideati dal Che Guevara.

Per la Chiesa il momento era certamente grave e un qualche compromesso bisognava pur farlo. Spinti da questa necessità di sopravvivenza e dalla miseria dilagante del Paese, nel 1969 i vescovi locali dichiararono ufficialmente fuorilegge l’embargo statunitense e non solo, invitarono coloro che ancora erano nel laicato cattolico a inserirsi in maniera concreta nei bisogni della società.

 

La vitalità della Chiesa

 

Furono questi due interventi che aprirono le porte ad una collaborazione tra comunisti e cattolici, una alleanza puramente strategica tanto che Fidel Castro in più circostanze portò ad esempio le suore nella sanità come un modello di efficacia che tutti i comunisti e tutti i lavoratori cubani dovevano imitare.

Se la gente mi chiama cristiano – affermava –non dal punto di vista della religione, ma dal punto di vista della visione sociale, dichiaro che sono cristiano” e auspicò perfino il rientro dei sacerdoti anche stranieri, cacciati anni prima, per ridare vita alla Chiesa dopo anni di persecuzioni. Non per questo, però, anche se in maniera silenziosa, non mancarono atti di sopraffazione tanto che agli inizi degli anni 2000 Fidel Castro ordinò l´arresto di ben 83 oppositori al suo regime con processi svolti a porte chiuse e con pene detentive dai 15 ai 27 anni di carcere per gravi crimini tra cui aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato, tra cui la più grave scrivere e affermare pubblicamente idee contrarie al regime castrista.

Molti di loro avevano ingenuamente sostenuto il Proyecto Varela, una richiesta di referendum popolare per introdurre a Cuba nientemeno le libertà democratiche. Inutile dire che fino abbia fatto questa richiesta.

La Chiesa cattolica, che si era fatta sempre più critica non rimase in silenzio, come altre volte. Dopo l´ultima ondata di repressione politica, alla vigilia delle prime condanne, nella diocesi di Pinar del Rio venne pubblicata una dichiarazione di denuncia del «rincrudimento dell´intolleranza e della persecuzione» con l’unica colpa di «pensare e agire pacificamente in modo diverso».

Questo gesto impensabile fino a qualche tempo prima, gettò una luce sulla crescita di spirito libero tra i cubani, sulla “maturazione dell´opposizione politica, sull´apertura di nuovi spazi di solidarietà e partecipazione nell´insieme della società civile”.

Inutile dire che il progetto naufragò per volere delle autorità, ma immaginare Cuba come narcotizzata dal potere castrista è offendere questo popolo che ha già tanto sofferto.

Citiamo le grandi manifestazioni di piazza del 2021 e del 2023 con milioni di persone nelle piazze dell’isola per protestare della mancanza di tutto compresa la più importante, la libertà. Oggi l’Isola è in una situazione di stallo con una economia sempre più drammatica, dove anche il necessario manca e gli arresti, insieme a piccoli grandi soprusi, non mancano di certo.

Scorrendo la storia anche recentissima dell’isola, non sappiamo cosa potrà succedere nei prossimi anni, il potere è ormai logoro, la gente non crede più nella decantata Revolution e così anche il castrismo e la sua visione marxista della società si avvia ad essere l’ ennesimo fallimento, ma nel frattempo ha distrutto la vita di milioni di persone innocenti, colpevoli di credere in un mondo fatto di libertà, ma il comunismo, sotto qualsiasi forma, questo proprio non lo potrà mai attuare, sarebbe semplicemente la sua fine.

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