Human Rights Watch Accusa: i Trasferimenti Forzati a Gaza Sono Crimini di Guerra. La Storia ci Chiederà: Dove Eravate?

14 Novembre 2024 Pubblicato da 1 Commento

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, offriamo alla vostra attenzione due articoli su quanto sta accadendo in Medio Oriente, e su cui la Comunità Internazionale sembra incapace di esercitare un qualsiasi controllo. Il primo è questo articolo de Il Post:

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Giovedì la rispettata ong internazionale Human Rights Watch, che si occupa di rispetto dei diritti umani, ha pubblicato un lungo rapporto in cui accusa Israele di avere compiuto dei trasferimenti forzati di massa di persone palestinesi durante l’invasione della Striscia di Gaza, iniziata ormai più di un anno fa.

È un’accusa pesante. La quarta Convenzione di Ginevra, che garantisce i diritti dei civili in guerra ed è considerata uno dei trattati fondanti del diritto internazionale, all’articolo 49 vieta espressamente «i trasferimenti forzati, in massa o individuali». È consentito, invece, lo «sgombero completo o parziale di una determinata regione occupata, qualora la sicurezza della popolazione o impellenti ragioni militari lo esigano»: a patto però che le persone sfollate siano adeguatamente informate e protette, e che sia consentito loro di tornare nelle proprie case «non appena le ostilità saranno cessate». La violazione di queste norme è considerata un crimine di guerra.

Secondo una stima dell’ONU che risale a questa estate dall’inizio dell’invasione israeliana hanno dovuto lasciare le proprie case almeno 1,9 milioni di abitanti della Striscia, su un totale di circa 2,2 milioni. Da mesi il governo israeliano sostiene che le proprie forze armate stiano rispettando il diritto internazionale, ma non è così.

Nel corso dell’invasione le forze armate israeliane hanno effettivamente emanato ordini di evacuazione, come prescrive la Convenzione di Ginevra: ma sono stati documentati moltissimi casi in cui l’avviso è stato comunicato con scarso anticipo oppure non è arrivato del tutto. In altri casi Israele ha bombardato zone che aveva indicato come sicure per gli sfollati, come nel caso della zona centrale di Mawasi, oppure installato dei checkpoint militari lungo le vie di evacuazione: per esempio lungo la strada Salah al-Din, che collega la zona sud e nord della Striscia e soprattutto nella prima fase dell’invasione era stata utilizzata da decine di migliaia di persone.

Un gruppo di persone cammina lungo la strada Salah al-Din (AP Photo/Hatem Moussa)

Leila, una donna palestinese di 40 anni costretta a muoversi su una carrozzina, ha raccontato a Human Rights Watch che un cecchino israeliano ha sparato su di lei e sulla sua famiglia mentre stavano evacuando la propria casa e cercando di raggiungere la Salah al-Din Road. Un video verificato da Reuters e da Human Rights Watch ha mostrato invece alcune persone morte a lato di una strada costiera che era considerata “sicura” nei primi giorni dell’invasione israeliana, nel novembre del 2023.

In certe zone inoltre Israele sta distruggendo la quasi totalità degli edifici e delle strutture urbane, rendendo di fatto impossibile un eventuale ritorno delle persone che ci abitavano. Pochi giorni fa un importante funzionario dell’esercito israeliano ha ammesso per la prima volta dall’inizio delle operazioni che Israele non intende far ritornare i civili palestinesi nel nord della Striscia di Gaza.

– Leggi anche: Israele non vuole far tornare i palestinesi nel nord della Striscia di Gaza

«Abbiamo dimostrato che Israele non ha evacuato la Striscia di Gaza per tutelare la sicurezza dei civili palestinesi, dato che non sono stati al sicuro durante le evacuazioni né al loro arrivo nelle cosiddette “zone sicure” designate. Israele inoltre non ha dimostrato l’esistenza di impellenti ragioni militari per motivare gli sgomberi di gran parte dei palestinesi dalle proprie case. E se anche riuscisse a dimostrarlo, il fallimento nel garantire la sicurezza e la tutela delle persone sfollate mentre fuggivano renderebbe comunque illegali queste operazioni», scrive Human Rights Watch nel rapporto.

È del tutto possibile che nei mesi successivi alla stima dell’ONU sulle persone sfollate il loro numero sia aumentato. A inizio ottobre l’esercito israeliano ha avviato un massiccio attacco nel nord della Striscia di Gaza, sostenendo che nell’area Hamas avesse ricostituito parte delle proprie forze militari. L’attacco sta interessando zone densamente popolate come la parte a nord della città di Gaza e soprattutto il campo profughi di Jabalia.

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Il secondo è un articolo del direttore de L’Indipendente, Andrea Legni:

 

Nel momento in cui scriviamo i palestinesi uccisi direttamente dalle bombe e dalle pallottole dell’esercito israeliano sono 43.824, di cui 16.765 bambini. E sono numeri che non tengono conto di coloro che sono stati uccisi dalla mancanza di cibo, dalle infezioni, da malattie e ferite non curate negli ospedali distrutti. Solo nell’ultima settimana la cosiddetta “unica democrazia del Medio Oriente” ha commesso almeno cinque stragi con più di cento morti, ha messo fuori legge l’UNRWA, ossia l’unica agenzia internazionale che garantisce gli aiuti umanitari ai civili palestinesi, e continua ad assediare centinaia di migliaia di persone nel nord della Striscia di Gaza impendendo loro di ricevere ogni bene di prima necessità, cibo e acqua compresiIn un anno, l’esercito di Tel Aviv ha raso al suolo duecentomila case, l’87% delle scuole e il 68% delle strade di Gaza; 19 ospedali su 36, con i restanti che funzionano tra mille difficoltà, privi di medicinali salvavita e anestetici. Sono stati uccisi anche 304 operatori umanitari e 174 giornalisti, segno di come per Israele anche chi aiuta i civili e chi racconta la devastazione in corso sia un obiettivo.

A testimoniare come questa immane tragedia umanitaria sia il deliberato frutto di un disegno che si nutre di odio etnico e razziale sono le stesse parole dei vertici politici israeliani. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha affermato che Gaza è abitata da «animali umani», precisando che sia giusto lasciarli «senza elettricità, cibo, benzina e acqua». Il ministro per gli Affari di Gerusalemme, Amihai Eliyahu, ha dichiarato che userebbe una bomba atomica su Gaza. Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha più volte definito i palestinesi «bestie». L’ex generale dell’esercito israeliano, Giora Eiland, ha rivendicato che l’obiettivo deve essere quello di «creare un disastro umanitario senza precedenti a Gaza».

Verrà un giorno in cui le generazioni che prenderanno il nostro posto su questo pianeta collocheranno la tragedia palestinese nella sua ovvia cornice: quella che ricorda, a eterna memoria, i tremendi genocidi del passato di cui l’umanità si deve vergognare, impegnandosi affinché non accadano mai più.

Le prossime generazioni studieranno il genocidio palestinese sui libri di scuola e, così come noi abbiamo fatto con l’Olocausto, si chiederanno non solo perché i governi lo abbiano permesso, ma anche perché così pochi abbiano mosso un dito per impedirlo. Cosa risponderemo loro? Chi visse durante i grandi genocidi del passato ha abitato tempi in cui si poteva sempre dire di non essere al corrente di quanto stava accadendo o che, comunque, non si riusciva a percepire in tutta la sua gravità la portata della tragedia. Ma noi sappiamo tutto: conosciamo i numeri di questa carneficina; abbiamo visto in tv e sui social i volti di migliaia di bambini uccisi o traumatizzati; abbiamo visto i soldati dell’esercito carnefice giocare tra le case e le scuole distrutte, ridendo dei sogni spezzati di migliaia di bambini.

Sembra che il perdurare di questo massacro renda molte persone più indifferenti: «Anche oggi 40 morti in una scuola bombardata? Non se ne può più di queste immagini, cambio canale». Se, quando la Storia verrà a chiederci dove eravamo durante il genocidio palestinese, vorremo avere una risposta degna, da esseri umani, è ora di rimboccarsi le maniche. Le cose che si possono fare sono tante, basta superare la solita passività da social network.

In tutte le città sono attivi gruppi per la Palestina, è tempo di unirsi a loro. A Gaza sono ancora attive, tra mille difficoltà e rischi, organizzazioni dal basso che aiutano i civili, come l’italiana SOS Gaza: una piccola donazione mensile può servire a tanto. E poi c’è il boicottaggio economico: il governo israeliano ne è terrorizzato al punto da aver inserito, da anni, i gruppi che lo promuovono nella lista delle organizzazioni terroristiche. È ora di andare a fare la spesa con in tasca l’elenco dei prodotti da non acquistare, quelli dei marchi che collaborano attivamente con le politiche israeliane. Non è difficile: all’inizio richiede un minimo sforzo di organizzazione e memoria, poi quella ventina di loghi ti si fissa nella mente ed evitarli diventa naturale. La lista completa è disponibile sul sito bdsitalia.org (ma anche, in versione ridotta ma piuttosto esaustiva, in questo articolo pubblicato su L’Indipendente) e osservarla può cambiare molto, perché nessuna politica di prepotenza può continuare se si prosciugano i fondi economici che la tengono in vita.

[di Andrea Legni – direttore de L’Indipendente]

Questo editoriale apre il Monthly Report di ottobre 2024, il mensile de L’Indipendente, che è disponibile per gli abbonati e in vendita a questo link.

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1 commento

  • nicola ha detto:

    e i cattolici e i cristiani zitti e mosca….daltronde che chiese copte e cristiane a gaza siano state distrutte e uomini donne e bambini uccisi…che je frega!? Ma diritto canonico alla mano noi confidiamo solo in Dio…per le opere se ne parla in altra sede…

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