Da Servi Inutili ad Amministratori Delegati Arroganti è solo un Passo…R.S.

27 Giugno 2024 Pubblicato da 5 Commenti

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, un amico fedele del nostro sito, R.S., che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione queste riflessioni sulla nostra fede. Buona lettura e meditazione.

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Noi cristiani siamo dei credenti singolari, perché di Gesù Cristo finiamo sovente per farne non l’unico rivelatore di Dio (il Tutto, l’Assoluto, l’Infinito), ma un utile simbolo delle cose che più ci interessano, ognuno dal suo punto di vista preferito: diritto, liturgia, pastorale, psicologia, potere, cultura, filosofia, solidarietà, politica…

Dio, la cui divinità è velata nel sacrificio dell’umanità crocefissa e la cui umanità è velata nel mistero del Santo Sacramento, si ridurrebbe a nostra idea, singola o associata in qualche aggregazione del popolo che unido jamas sera vencido.

E’ quasi pleonastico rimarcare che, così facendo, “dio” diventa un’espressione semantica e l’unica parola che conta davvero è la nostra, irrobustita da presidenze, commissioni e maggioranze.

Ci siamo un po’ allargati e da servi inutili ci siamo fatti amministratori delegati, anche scocciati della presenza della Proprietà. Nel vangelo Gesù anticipa la situazione con due sottolineature apparentemente antitetiche: deprecando i vignaioli omicidi e lodando la scaltrezza dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-13).

La salvezza dell’umanità sta nel sacrificio di Cristo (ostia=vittima), l’agnello di Dio. La croce è il trono di gloria del Re. Sostare a ricevere la Grazia da quel che avvenne sul Calvario fa entrare con estrema sensibilità in quel dolore, con la commozione di chi si sente coinvolto, la compassione di chi ama Colui che soffre e la contemplazione capace di consolare il sofferente.

Se Dio permette certi avvenimenti è per trarne un Bene maggiore. E’ la logica della croce, la più ardua. Nella croce di Cristo c’è il mistero dell’espressione della Provvidenza che orienta ogni cosa al bene. Giungere fin lì, con questa consapevolezza, è Grazia.

Non c’è studio o sforzo o cammino personale che basti o che tenga. Siamo oltre, c’è bisogno d’Altro da noi stessi. L’abbandonarsi nelle mani del Padre senza gridare la propria innocenza (evidente) e senza inveire contro accusatori e crocifissori (sarebbe stato umanamente “logico”) fa della passione di Nostro Signore lo snodo decisivo (cruciale) della fede in Lui.

La Chiesa militante sta facendo l’esperienza della croce.

Il potere del mondo gronda di odio a Cristo. Del disprezzo di Dio e di un mettere al suo posto un uomo che vuol farsi dio senza Dio: l’essenza del peccato originale. Superbo orgoglio, in cui l’uomo cade cedendo alla tentazione dell’invidioso, astuto falsario e omicida dal principio. Per redimerci da quella condizione, che ritorna sempre ed oggi gronda dai poteri mondani, Gesù ha accettato la volontà del Padre, consegnandosi alla croce in vista del bene della vita eterna.

Gesù crocefisso è un concentrato di dolore e di sofferenza fisica, ma molto peggiore furono l’ignominia e il disprezzo patiti quando fu condannato in mezzo a due briganti, liberando un malvivente a furor di popolo (imbeccato dai suoi sobillatori). Fu coronato di spine, vilipeso e deriso, nella nudità davanti alla madre!

E’ questo a guarire l’umanità dal peccato. Ogni Messa alla quale abbiamo la grazia di poter partecipare è un atto di riparazione e si può viverla con questa intenzione in comunione al sacrificio di Gesù.

Non lasciamoci ingannare da qualche cattivo pensiero nel “limitarci” a questo, perché “questo”:
-non giustifica il male né chi lo compie, iniziando da me.
-non tace la verità su ciò che è male, anzi…
-non annacqua il giudizio di Dio sulla volontà cattiva e sulla mancanza di fede.

Farsi vittima (ostia), comunione con l’Agnello immolato, non è affatto un atto remissivo. E’ il solo atto capace di fede nella Provvidenza, restando dove ci chiede di stare.

Se siamo di Gesù il mondo ci tratta come trattò Lui. Pensiamo davvero al Padre Nostro, come ce l’ha insegnato Gesù disceso dal cielo. E’ il Figlio di Dio (è Dio): non viene dalla terra, né Lui, né la sua volontà. Chiama Abbà il Padre proprio nel momento più angoscioso, al Getsemani. Compie la volontà del Padre nella carità che tutto crede, spera e sopporta. Gesù pregando parla della tentazione che i figli devono fronteggiare: Gesù stesso fu condotto dallo Spirito Santo nel deserto per essere tentato dal diavolo.

Gesù è condotto dallo Spirito Santo proprio là dove il diavolo lo tenta.

A tentare è il diavolo, ma a metterci dove c’è la sfida è lo Spirito di Dio! Dio non ci abbandona mai, specialmente lì! Perciò la croce è indiscutibilmente Provvidenza.
Maria corredentrice lo sa bene. Stabat mater dolorosa, ma sempre piena di Grazia.

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5 commenti

  • R.S. ha detto:

    Le parabole evangeliche sono la quintessenza del mistero. Quando Dio ci parla, lo scopo non è che l’uomo debba conoscere il perché di ogni cosa. Il mistero infatti è tutt’altro dall’ignoto e quello che resta fuori da ciò che siamo in grado di intendere (Mc 4,9 e Mc 4,33) è una santa, dotta, “ignoranza” che assicura la tensione (l’attenzione) a Dio senza ridurLo nei nostri schematismi.
    E’ l’umiltà dell’anima timorata di Dio a rendere l’uomo non solo immagine, ma anche somigliante a Dio, per la Grazia che santifica, conscio che quel paragone (il “come”) non coincide mai con l’uguale (lo “stesso”).

    Dio ci chiama a tendere a Lui non alla pari, ma mettendoci accanto: paragonabili, ma stando al nostro posto che è quello per cui ovviamente lasciamo Dio al primo posto. E’ il mistero della potenza passiva della Grazia che riempie l’umile.
    La fede sostiene questa disposizione e offre sufficiente luce alla ragione umana perché non brancoli disorientata. Non serve sapere tutto; non si deve andare oltre all’intendere quel che Dio ci rivela; eppure così si dischiude la porta del Regno.

    Nella parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16), lodandone la scaltrezza Gesù non ci chiede l’amicizia con ladri e truffatori. Non sentiamoci tuttavia distanti dall’essere potenziali protagonisti della scena, dato che siamo immersi più o meno involontariamente in sistemi strutture palesemente ingiusti.
    Viviamo in un contesto di ingiustizia (le strutture di peccato descritte da San Giovanni Paolo II) e a volte beneficiamo di privilegi, tentati di servircene solo a nostro vantaggio. Quando non ne siamo direttamente responsabili, abitiamo questo sistema. Le ricchezze di questo mondo sono “mammona” (ingiustizia) e incarnano l’idolo del vitello d’oro.

    Per quanto sta a ciascuno di noi, la coscienza educata dal vangelo suggerisce di usare delle ricchezze secondo il progetto di Dio: per provvedere ai bisogni nostri e dei nostri familiari, sovvenendo a chi suo malgrado è sprovvisto di beni, spesso senza alcuna colpa. La parabola dell’amministratore infedele, finisce così: “Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9).

    Le ricchezze terrene un giorno ci verranno a mancare. Certamente sarà così al momento della nostra morte. Allora il Signore ci ammonisce perché ci presentiamo davanti al suo tribunale accompagnati da persone che testimoniano a nostro favore e che dicano: “Questi mi ha aiutato, mi ha fatto del bene per amor del Signore. Merita che tu lo accolga nelle tue dimore eterne”.

    Nell’Antico Testamento la ricchezza era considerata parte della benedizione divina; la prosperità di per sé stessa è un bene, tuttavia può diventare “disonesta” quando vi si attacca il cuore e si vive in funzione di essa per accrescerla sempre di più, non usata secondo il disegno di Dio, che ce l’ha data da amministrare secondo il Suo Cuore.

    Siamo dei riceventi opportunità e Grazia: non va mai dimenticato e trascurato questo ruolo costitutivo, provvisorio e ricettivo. Non illudiamoci o insuperbiamoci ingannevolmente pensando “nostro” quel che abbiamo ricevuto. Abbiamo un ruolo nell’amministrazione dei beni e i talenti per sviluppare competenza nel farlo.

    L’amministratore della parabola era stato licenziato dal padrone. Per questo dice: “So io che cosa fare perché quando sarò allontanato dalla amministrazione ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua” (Lc 16,4). Per assicurarsi il futuro l’amministratore chiamò uno dei debitori del padrone e gli disse: Quanto gli devi? Rispose: Cento barili di olio. Cento barili corrispondono a 38.000 litri. L’amministratore fece un regalo corrispondente alla metà, 19000 litri d’olio. Un altro debitore doveva cento misure di grano. E il furbone disse: prendi la tua ricevuta e scrivi 80. Cento misure di grano corrispondevano a 380000 litri di grano. Gliene condonò un quinto. E così fece con tutti gli altri debitori del suo padrone. In questo modo si assicurò la permanenza nella casa dell’uno o dell’altro fino a tempi migliori.
    Dove? Su questa terra…

    Alzi la mano chi non riconosce un certo modo di amministrare i comandamenti attualmente in voga. Altro che iota unum!

    Tuttavia il vangelo riporta che il padrone lodò l’amministratore per la sua scaltrezza. Non l’ha lodato perché gli aveva inferto l’ennesimo danno e tradimento, ma ne riconosceva l’abilità nel perseguire i suoi (quelli del disonesto) interessi. Gesù non loda l’amministratore per la sua disonestà, ma per la sua determinazione e astuzia, dicendo che “i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8).

    I figli di questo mondo sono quelli che sono preoccupati solo dei beni che servono a un futuro agiato su questa terra: esso, per quanto possa essere lungo, sarà sempre provvisorio. I figli della luce, i suoi discepoli, non mostrano la medesima accortezza per preparare in grande il loro futuro eterno. Invece dovremmo essere più scaltri nell’assicuracelo beato.
    Si tratta dell’unica ragione per cui Dio creandoci non ci ha messi subito di là, ma di qua. Nel mistero (senza perché, ma così com’è) Dio ha voluto che il paradiso non ci venisse regalato o tirato dietro, ma che fosse un nostro desiderio, nel vero significato dell’aggettivo possessivo: nostro in quanto sperato, desiderato, chiesto, amato, atteso e posseduto. Siamo amministratori della Grazia di Dio, responsabili del nostro futuro eterno: la Sua gloria può diventare pienamente nostra!

    L’uso delle ricchezze terrene per fare del bene dischiude le porte del paradiso, diversamente da quei ricchi per i quali è più facile che un cammello transiti per la cruna dell’ago (Mt 19,24). E’ per il bene alla nostra anima, misericordiando chi è in stato di necessità.

    Senza questo, la ricchezza posseduta diventa disonesta e ingiusta: un po’ come la fraternità ecologica e grondante diritti del “nuovo ordine” filantropico predicato a Davos e diventato molto familiare nelle omelie della chiesa secolarizzata del culto dell’uomo, ma tendenzialmente dal disumano al transumano.

    Gesù l’ha detto: senza di me non potete far nulla. Solo la Verità (che è Lui) rende liberi e non criceti sulla ruota.

  • Francesco ha detto:

    Bellissima riflessione che ci permette di raccogliere le forze per proseguire in questa situazione di confusione in cui la chiesa riversa ta tempo .

    Grazie

  • Giovanni ha detto:

    Articolo grondante Cattolicità, quella vera intrisa di Fede, non la melassa che spacciano da almeno sessant’anni.

  • Balqis ha detto:

    Caro RS, grazie

  • Emy ha detto:

    Assolutamente stupendo

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