La Fineide. Per Capire l’Infezione Radicaloide e Europainomane della Destra Attuale. Giovanni Formicola.

3 Maggio 2024 Pubblicato da

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, un amico fedele del nostro sito, l’avvocato Giovanni Formicola, mi ha inviato questo messaggio, e il piccolo saggio che trovate qui sotto. Mi sembra interessante e utile proporvelo. Buona lettura e meditazione.

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Ripropongo quella che ho chiamato “Fineide”, approfittando di un’attualità che ne chiude la parabola secondo giustizia, perché al di là del personaggio, che di suo non meriterebbe alcuna attenzione, mi sembra che dalla narrazione emergano fatti, personaggi, condotte, idee, paradigmatici per capire l’oggi trent’anni della nostra storia politica  della “destra” in Italia, infettata dal radicalismo (nel senso del partito radicale), relativista e sostanzialmente indifferente ai principi non negoziabili, e dall’europeismo spinto all’estremo.
Non ho ritenuto di aggiornarla, perché quanto è accaduto nei successivi quattordici anni – ad eccezione dei Cinque Stelle, fenomeno di degrado morale e intellettuale che non ho saputo nemmeno intravvedere – ne è stato all’evidenza coerente sviluppo. Dal ruolo dei Monti-Draghi, al passaggio dei sodali di Fini, Casini e Della Vedova, al PD; dal perfezionamento del patto Fini-Napolitano (Ribbentrop-Molotov) al ruolo di certe signore per completare percorsi d’ingaglioffimento; dalla perdita d’autonomia e cultura politica, dalla catastrofica più che fallimentare idiozia di Futuro & Libertà, alla difesa a “destra” della legge abortista, al decadimento morale e ideale dei politici di professione; dalla pessima senilità di Berlusconi, alla sparizione di ogni orizzonte di buona battaglia per i princìpi della destra naturale e tradizionale.
Ai volenterosi – e ce ne vuole di volontà – buona lettura.

 

1. Giuliano Ferrara, Fini e la Concezione «Padronale» del PDL (cfr., tra tutti, l’Editoriale sul Foglio del 20 aprile 2010). Se anche il Problema fosse reale, è questa la vera Motivazione di Fini? Per provare a dare una Risposta, potrebbe essere utile ricostruire dalle sue Origini il Contesto e i fattori genetici del PDL.

«Cav.Il Sung», così Giuliano Ferrara ha intitolato un suo a dir poco ingeneroso editoriale su il Foglio del 20 aprile scorso. Sul filo di una sottile e per vero antipatica ironia, in vista della famosa (o famigerata?) Direzione Nazionale del PDL del successivo giovedì 22 aprile, e a proposito della «fineide», egli conclude che «un piccolo esercizio di democrazia interna potrebbe non essere così dannoso per il Popolo della Libertà. È vero che una delle circostanze più irritanti, nella vita, è l’obbligo di tener conto delle opinioni degli altri, ma il Cav. Il Sung sopravviverà a questo e a molto altro».

Dunque, e non solo per Ferrara ma anche per tanti altri, in questione sarebbe una certa concezione «imprenditoriale», se non «padronale», e antipolitica del partito – termine che a questo punto meriterebbe le virgolette –, e quindi di democrazia interna, di capacità di ascolto e coinvolgimento.

Sono troppo lontano dalle dinamiche interne del PDL per pronunciarmi sulla sussistenza del problema nei termini descritti – sebbene, e solo per fare un esempio tra tanti, mi sembri molto poco «padronale» una gestione che di undici governatori regionali in carica ascrivibili all’area di centro-destra ne abbia decisi al massimo tre (e non parliamo di alcuni candidati perdenti), e neppure delle regioni più popolose e ricche –, ma mi chiedo se siano così riducibili, e in fondo minimizzate, le motivazioni del «finismo». Credo che per provare a dare una risposta possa essere utile una ricostruzione delle origini e dei fattori genetici del PDL: andare al suo contesto storico, cioè ai fatti.

2. La «Caduta del Muro», la fine della I Repubblica e la «Liberazione» dell’Elettorato Conservatore, Nazionale, Anticomunista, Naturaliter Christianus («Popolo Della Libertà»). Berlusconi scende in campo: lo «Sdoganamento» di Fini. Il primo Governo non Ciellenista.

Senza voler andare troppo lontano – ma senza poter rimanere troppo vicino –, il tornante storico che rileva ai nostri fini (senza maiuscola) è certamente la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

Misteriosamente e senza cause apparenti, l’«impero del male» implode, il simbolo della sua natura di «prigione dei popoli» (un muro serve o a impedire l’ingresso, o a impedire l’uscita: in questo secondo caso è il muro di una prigione) viene abbattuto, e inizia un processo di decomposizione che fa riemergere da sotto la crosta del bipolarismo «comunismo-Occidente», che le soffocava, le culture e quindi le civiltà «di prima». Questo processo potrebbe essere non indolore, ed oltre che un re-incanto del mondo (prova che il giudizio weberiano d’irreversibilità del disincanto tecnico-scien-tifico, razionalista-postivistico e quindi ideologico, era azzardato, per dire il meno), rischia di causare uno scontro di civiltà (clash of civilisation), la cui ipotesi solo gl’imbecilli o gl’ideologi di mala fede possono spacciare per auspicio.

In Italia, la ricaduta della «Caduta» è invero singolare.

Il nostro Paese, che aveva il discutibile privilegio di ospitare il più grande (e più ricco) partito comunista del mondo non comunista, è in quel tempo anche un Paese ad altissimo tasso di socialismo reale nell’economia (abbondantemente statalizzata e socializzata in modo «freddo», cioè attraverso la progressività delle imposte) e nella Pubblica Amministrazione elefantiaca e pervadente, nonché quasi totalmente soggetto all’egemonia culturale del Pci secondo il modo gramsciano. Questa, per l’impossi-bilità di un esercizio diretto del potere, cioè di un attività di «dominio» da parte dei comunisti come avviene oltrecortina, si attua influenzando e talvolta infiltrando tutti i poteri nella polis: quelli tipici – l’esecutivo (inteso non solo come governo, ma anche come amministrazioni locali, prefetture, forze armate e di polizia, servizi più o meno segreti di sicurezza, etc.), il legislativo e il giudiziario –, e quelli atipici o «altri» – mediatico-culturale, economico-finanziario, sindacale.

È dopo l’esperienza dei governi «ciellenisti» (da CLN, Comitato di Liberazione Nazionale, che riunisce durante la guerra i partiti antifascisti, dai liberali ai comunisti) nel triennio 1944-1947 – cui va aggiunto l’intervallo dell’altro triennio 1976-1979, quando va in scena il tentativo di riportare i comunisti nell’area di governo con la «solidarietà nazionale», effetto della strategia berlingueriana del «compromesso storico» –, che il Pci, estromesso dall’esecutivo, inizia la sua lunga marcia nel Paese «reale» per egemonizzare quello «legale», nel quadro del bipolarismo internazionale, cioè dell’equilibrio di Yalta, che nega ai comunisti in Occidente la titolarità formale del governo. La meta viene praticamente raggiunta già sul finire degli anni 1960. Il Pci, infatti, esercita una tale capacità d’influenza («egemonia») che, come «opposizione», quando non si astiene benevolmente, approva l’80% delle leggi di spesa, e specialmente promuove tutte quelle davvero importanti, quelle che hanno segnato storicamente la cosiddetta I Repubblica: Statuto dei lavoratori, nazionalizzazioni, divorzio, aborto, liceità dell’uso personale degli stupefacenti, etc..

Una salda posizione di egemonia culturale progressista, ma non al governo: questa nel 1989 la situazione del Pci. Che, al suo attivo, può vantare anche di aver potentemente contribuito al processo di trasformazione della nostra economia da libera a socializzata. Un’economia, cioè, che marginalizza e contrasta ogni tipo di piccola impresa, sempre più ingessata dalle inframmettenze di Stato e sindacali, di cui si giovano solo la grande industria assistita (profitti privati e costi pubblici: ogni allusione alla FIAT è puramente voluta), l’alta finanza e il sistema bancario semi-statale. Un’economia che si alimenta di un mostruoso debito pubblico e di una vera e propria persecuzione fiscale, divorando la ricchezza della nazione e la sua libertà (le tasse assorbono oltre il 50% del reddito, dunque si lavora almeno sei mesi all’anno gratis per lo stato, e questo in media!), secondo i canoni ideologici del socialismo reale «freddo».

Quando il Muro cade, si sarebbe indotti a pensare che oltre i suoi costruttori e custodi (sulla cui sorte effettiva molto sarebbe da dire ancora), anche i loro amici, compresi quelli in Italia (ancora al festival de L’Unità del 1989 è presente la delegazione amica della DDR, la Germania comunista: i padroni del Muro), siano travolti dalle macerie. Ed invece, questa è la prima singolarità degli effetti, sembra che sia caduto il muro della prigione politica in cui erano rinchiusi: la fine del comunismo in Italia «libera» i comunisti. Un cambio di nome (PDS) e un ritocco al simbolo (una quercia con alle radici il vecchio emblema del Pci) per ragioni di decenza e presentabilità sociali, un’articolazione a sinistra detta Rifondazione, per garantire che il «cam-biamento» è effettivo, un buon maquillage insomma, ed ecco che gli stessi uomini, dalle stesse sedi, con gli stessi mezzi e fini (senza maiuscola, per ora), sono pronti e legittimati al governo del Paese. Il comunismo non c’è più (?), quindi i comunisti possono, anzi debbono, governare.

C’è però un ostacolo: il consenso popolare. Infatti, in Italia il popolo è ancora, mutatis mutandis, quale si era manifestato nel 1948. Quando era stato mobilitato, in una vera e propria «crociata» elettorale per sconfiggere il Fronte Popolare socialcomunista, dai Comitati Civici organizzati da uno dei padri morali del centro-destra italiano, il professor Luigi Gedda, presto «silenziato» dalla Dc, che pure di tale impegno fu la principale se non unica beneficiaria. Un popolo, cioè, in maggioranza conservatore, anticomunista e, almeno naturaliter, cristiano.

Esso, in altri termini, è la nazione che continua a diffidare di prospettive e programmi più estranei al suo ethos che stranieri, che teme un progressismo avvertito piuttosto come una fuga dalla realtà e dal buon senso che un’avanzata verso il paradiso in terra, che è gelosa delle sue libertà, magari anche meschine, ed è insofferente dell’invadenza e della prepotenza statalistiche, operanti soprattutto con la burocrazia ottusa e con la fiscalità persecutoria e punitiva, in chiave egualitaria, del successo economico. Insomma, in Italia c’è già un «Popolo della Libertà» – e del resto nel mondo reale si dà il nome a ciò che esiste: è l’ideologia rivoluzionaria che pretende di creare con la forza e con la propaganda ciò cui ha già dato il nome.

Questo popolo per decenni ha dato il consenso in chiave anticomunista a partiti che non l’hanno mai amato, e che hanno sempre rifiutato di rappresentarlo per come è. È un rapporto che uno storico contemporaneo, il professor Roberto Pertici, descrive in modo acuto e illuminante, delineando il profilo di «una destra diffusa, in fondo non rappresentata nel sistema politico italiano, le cui radici si possono trovare nella diffidente accettazione della democrazia, nella frequente polemica “antimoderna”, nel rifiuto della politicizzazione della società e […] in un anticomunismo, si direbbe, “esistenziale”. È un’area che elettoralmente si sposterà sui partiti che via via le sembreranno corrispondere a questo sentire diffuso, ma sempre, in definitiva, “turandosi il naso”».

Insomma, in Italia, in modo diametralmente opposto alla situazione mondiale, sotto l’apparente multipolarismo partitocratico, era costretto un sostanziale bipolarismo popolare. Da un lato l’elettorato anticomunista, cristiano, tendenzialmente conservatore e nazionale – che si affida a vari partiti, a seconda delle differenze e sfumature di sensibilità e d’interessi, ma soprattutto alla Dc. Dall’altro, quello a diverso titolo anti-italiano (che non si riconosce cioè nell’indole e nell’ethos nazionali, siccome «cattolici non riformati», cioè «controriformistici», e vorrebbe radicalmente trasformarli) –, che pure dà il proprio consenso a più partiti, dagli eredi dell’azionismo, i radicali, alle frange estreme dell’ultrasinistra, ma certo nella misura di gran lunga maggiore al Pci.

E che i partiti sostenuti da questo sostanziale «Popolo della Libertà» non lo amassero più di tanto, e rifiutassero di rappresentarlo e assecondarne gli umori anche populisti, ostili alla politicizzazione della vita e della società, meno sensibili ai richiami resistenziali e antifascisti rispetto a quelli anticomunisti, lo provano tanti fatti e dichiarazioni nel corso della storia della I Repubblica.

Non l’amò l’alta classe dirigente della Dc (altra cosa, ovviamente, l’elettorato ed anche i quadri intermedi e periferici) – sulla cui identità, secondo il suo più profondo inner circle, così dichiara De Gasperi nel 1945: «Noi ci siamo definiti “un Partito di centro che si muove verso sinistra”»; e con più precisione nel 1949, identificando anche le fonti del consenso: «La democrazia Cristiana [è un] partito di centro inclinato a sinistra, [che] ricava quasi la metà della sua forza elettorale da una massa di destra», sorta di traduzione in italiano dell’icastica definizione del francese Gorge Bidault, «gouverner au centre et faire, avec les moyens de la droite, la politique de la gauche». Nella stessa linea e non senza orgoglio, la rivendicazione nel 1999 dell’on Ciriaco De Mita: «Quando gli storici si occuperanno di fatti e non solo di propaganda spiegheranno che il grande merito della DC è stato quello di avere educato un elettorato che era naturalmente su posizioni conservatrici se non reazionarie a concorrere alla crescita della democrazia. La DC prendeva i voti a destra e li trasferiva sul piano politico a sinistra».

Ma neppure l’amò troppo almeno una parte della classe dirigente del Msi, come riconosce nel 2005, anche lui non senza un malcelato compiacimento, Umberto Croppi, attuale assessore della giunta di Alemanno: «Per me, ma anche per molti altri, il Msi è stata un’esperienza di sinistra». «[…] L’elettorato era di destra ma quasi nessuno di noi si considerava di destra». […] «I vertici dell’Msi sapevano benissimo che i voti dovevano prenderli a destra. Un caso di schizofrenia. Ti ricordi la corrente di Almirante? Si chiamava “Sinistra Nazionale”».

In questo scenario di fondo – naturalmente descritto a grandissime linee, in modo necessariamente sommario, e tuttavia non falso –, in cui non è mai stato festeggiato il 18, ma il 25 aprile, lo «sblocco» mondiale del sistema bipolare seguito alla caduta del Muro «libera» come si è detto i comunisti sotto altro nome e simbolo, ma anche, ed è questo il secondo effetto singolare, il «Popolo della Libertà».

Tutto comincia quando, nella perdurante mancanza di consenso popolare – ancora nel 1992 i cinque partiti «occidentali», Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli, sfruttando la rendita di posizione nei confronti del popolo anticomunista, ottengono la maggioranza assoluta –, la via al socialismo si fa «giudiziaria».

Sarebbe questo un capitolo meritevole di essere trattato a parte e lungamente. Qui possiamo solo osservare che è abbondantemente documentato come quel fenomeno mediatico-giudiziario passato alla cronaca come «mani pulite» abbia avuto anche un’intenzione e un programma ben precisi. La inevitabile quanto indifferibile crisi del sistema politico, una volta venute meno le ragioni internazionali della conventio ad excludendum (comunque, s’è detto, limitata alla titolarità formale del potere esecutivo) di quello che era stato il Pci, andava accelerata «correggendo» la democrazia con la giurisdizione, cioè inserendo elementi di giudizio – la corruzione dei politici e la loro conseguente indegnità, che nessun voto popolare può riscattare – che al popolo sfuggono o rispetto ai quali è connivente. Beninteso, è innegabile che il fenomeno corruttivo della I Repubblica esistesse e fosse esteso; è innegabile che le delazioni estorte con la custodia cautelare non fossero sempre calunniose; è innegabile che la gran parte della magistratura fosse estranea al «programma» ed anzi lo avversasse. È però altresì innegabile che una «minoranza intraprendente» abbia «approfittato» di una congiuntura storica favorevole e della corruzione diffusa per attuare un programma politico, e che la gran parte della magistratura – vuoi per inerzia; vuoi perché non ha saputo cogliere la finalità ulteriore a quella di giustizia nell’opera; vuoi per solidarietà di scopo («i corrotti in galera») – non solo non si è opposta, ma ha cooperato alla realizzazione del «programma» stesso.

In ogni caso, l’esito è noto: viene travolto il ceto politico della I Repubblica, soprattutto quello meno disponibile a cedere il passo ai progressisti «liberati», e con eccezione della componente invece più «disponibile» (che confluirà, talvolta conservando il «nome», nel centrosinistra), e con esso vengono disintegrati i partiti di governo. La politica è sconfitta, e tecnocrati come Ciampi vengono chiamati alla guida del governo (e poi anche a capo della Repubblica). Lo stesso sistema elettorale è profondamente stravolto. Il «movimento referendario» promosso da un perdente di successo, Mario Segni, cavalcando la tigre della crisi ottiene, con consultazioni popolari successive che segnano il distacco degli elettori dai loro partiti tradizionali di riferimento che si schierano contro, l’abolizione della preferenza plurima, i collegi uninominali per i candidati al Parlamento, dove vince chi ottiene anche solo un voto in più degli altri, e l’elezione diretta dei sindaci.

È precisamente questa la «liberazione», il «25 aprile», del «Popolo della Libertà». Non è più costretto a dare il proprio consenso, per mancanza di alternative migliori, a una pluralità di partiti accomunati dal fatto che fondamentalmente lo ripudiano e che, giovandosi del divieto di mandato imperativo (cioè del vincolo dell’eletto nei confronti dell’elettore e del patto programmatico con lui concluso e per il quale è stato votato), ne tradiscono puntualmente le aspettative («fare con i voti di destra una politica di sinistra»). In un certo senso, lo conferma D’Alema, quando lamenta la «sparizione» di quindici milioni di voti dalla dote di consenso dei partiti tradizionali della I Repubblica, rinominati e confluiti nell’Ulivo: «L’Ulivo è il luogo di raccolta delle componenti democratiche, delle correnti politiche fondamentali che hanno dato vita alla Repubblica democratica nel dopoguerra. E cioè di quella sinistra democratica riformista che in Italia si è organizzata all’interno di diversi partiti del movimento operaio, sinistra di ispirazione laica, socialista, repubblicana, che è stata presente nel Pci, che ha una sua originale variante nell’ambientalismo italiano che poi è a mio giudizio, almeno nella sua genesi, una costola della sinistra, e il cattolicesimo democratico. Se noi vediamo la cosa così com’è, il primo grande interrogativo al quale cercare di dare una risposta […] il vero grande problema è perché noi, che rappresentavamo la quasi totalità del popolo italiano, abbiamo perduto […] 15 milioni di voti» (Trascrizione del discorso tenuto dal segretario del Pds Massimo D’Alema l’8 marzo al seminario di Gargonza, Corriere della Sera, 12 marzo 1997).

La prima occasione in cui godere di questa libertà è l’elezione dei sindaci nel 1993. Due «destre» (le virgolette stanno per una serie di riserve e distinguo per i quali manca lo spazio) trionfano, anche quando «perdono»: la Lega al Nord e il Msi-versoAn al centro-sud. Nell’assenza dei partiti tradizionali non comunisti, il «Popolo della Libertà» si compatta e concentra i suoi consensi sui candidati alternativi alla sinistra progressista e post o neo comunista. In particolare, la candidatura dell’allora giovane segretario del Msi-versoAn alla carica di sindaco di Roma è l’occasione per l’epifania del Cavaliere. Un noto imprenditore di successo dell’economia reale e non finanziaria, nei cui salotti buoni non solo non è mai entrato, ma dai quali è proscritto, con mossa studiata per «scendere in campo» politico (le cui motivazioni solo Dio conosce, al di là di ogni allusione «dietrologica»), si schiera per lui in occasione dell’i-naugurazione di un supermercato nella rossa Castelmaggiore. Fini perde non di molto il ballottaggio con il candidato progressista Rutelli – e qualcuno pensa che quel 47% di consensi siano suoi e/o di suo merito, mentre è la cifra dell’elettorato irriducibilmente anticomunista e non frenato dalla pregiudiziale antifascista –, ma è «sdoganato» (qualcuno si offenderà, ma è così: e non tanto dal Cavaliere, ma da un elettorato, descritto sempre dal professor Pertici, fatto di «tanta piccola e piccolissima gente», nutrita dall’«avversione spontanea, profonda, immediata per lo stravolgimento violento della “naturalità sociale”», che però Fini non saprà o non vorrà compiutamente rappresentare, se non amare).

È il passo decisivo verso il primo governo della storia repubblicana non «ciellenista», che non trae cioè la propria legittimità politica esclusivamente dall’antifa-scismo, inteso non come ovvia e doverosa avversione alla dittatura fascista, ma come ipostatizzazione ideologica di un’esperienza storica, che nega legittimità all’antico-munismo identificandolo con il fascismo, e soprattutto con quest’ultimo rifiuta e combatte l’intera tradizione nazionale e cattolica.

2.1. Tre «Destre», due Alleanze, un Elettorato: dal Bipolarismo popolare al Bipolarismo di sistema. Un Indizio preciso: le Elezioni del 1994 e il «Caso Puglia».

All’inizio del 1994, le Camere vengono sciolte sotto l’onda d’urto di «mani pulite» e perché la sinistra progressista post e neo-comunista giudica di aver ormai approntato una «gioiosa macchina da guerra», idonea alla conquista anche della titolarità formale del governo, negata per quasi mezzo secolo al Pci.

Il Cavaliere, per impedire un risultato elettorale che ritiene costituirebbe una grave e forse irrimediabile sconfitta per la libertà e per l’Italia tutta (quelli che furono senza remore comunisti al potere, dopo lo storico disastro e la manifestazione anche ai ciechi volontari della malvagità del comunismo), si rende subito conto, dopo un vano tentativo al centro e con il perdente di successo, che bisogna unificare le prime due «destre». Infatti, con il sistema elettorale uninominale per il 75% dei seggi, la maggioranza in Parlamento la raggiunge non chi ottiene più voti, ma chi vince nel maggior numero dei collegi, anche con il minimo margine. La sinistra unita, ancorché minoritaria, allora ha ottime possibilità di prevalere in numerosi collegi, approfittando della divisione nel campo opposto tra le prime due «destre» che non si parlano, e tra queste e un centro residuale, che non capisce o non vuole capire, legato com’è ancora all’antica idea principio per la quale il vero nemico è solo a destra.

Allo scopo, il Cavaliere fonda un partito nuovo, Forza Italia (FI), la terza «destra». Con essa farà da trait d’union con le altre, la Lega e Msi-versoAn, in due alleanze: il «Polo delle libertà» al Nord – FI e Lega –, il «Polo del buon governo» al centro-sud – FI e Msi-versoAn. Così, scarica l’arma principale della «macchina da guerra» progressista, e con una campagna elettorale tutta incentrata sul valore della libertà – in particolare dalle tasse, dalla burocrazia e dal teatrino della politica politicante e corrotta, in quanto di mestiere (in questo senso «antipolitica») – e su quello da essa indissolubile dell’anticomunismo, conquista la maggioranza dei seggi, e quindi la titolarità del governo.

Se le «destre» sono tre e due le alleanze, il popolo e quindi l’elettorato è sostanzialmente unico. Se non prova, ne è certo indizio preciso e serio il «Caso Puglia».

In quella regione, FI non riesce a presentare la propria lista per concorrere all’attribuzione del 25% dei seggi per la Camera con metodo proporzionale, cioè mediante voto al simbolo del singolo partito. Ebbene, l’altro soggetto dell’alleanza, il Msi-versoAn, raccoglie da solo gli stessi voti (circa seicentocinquantamila) che, per l’elezione del Senato, vengono ottenuti dall’alleanza con FI nel «Polo del buon governo» (circa seicentosettantamila). Gli elettori, dunque, non fanno questione di simboli. Per loro conta l’alleanza, e in fondo ritengono fungibili i vari partiti che la compongono, vedendo in questi riflessa la stessa omogeneità del loro «sentire» politico. Essi, dunque, sembrano aver capito subito e scelto senza riserve: più che sostenitori di un partito, sono un popolo, e non hanno difficoltà a votare uniti. Lasciano le gelosie e lo spirito concorrenziale, quando non di rivalità, ai vari partitanti. Il bipolarismo popolare, grazie anche alla nuova legge elettorale, tende a diventare di sistema e consente di cominciare a parlare con qualche fondamento di Seconda Repubblica, distinta dalla Prima, di cui supera i bizantinismi e le differenziazioni di facciata, in quanto caratterizzata dalla drammatizzazione della contesa politica, che finalmente riflette la realtà del Paese, ed in marcia verso il «patto con gli elettori», tendenziale ripristino del vincolo di mandato.

2.2. Il Governo senza Potere contro i Poteri, e il «Ribaltone».

Il primo governo Berlusconi, per quanto forte di consenso nel paese – solo pochi mesi dopo le elezioni politiche del 1994, alle europee, l’alleanza di governo sfiora il 50% dei suffragi –, non ha alcun legame con i «poteri forti» nazionali e internazionali, e quindi nessuna «copertura». In questo senso, è «antipolitico» nei fatti, non solo nel modo in cui si è proposto.

Banchieri e finanzieri da «salotto buono», gl’industriali più potenti e assistiti, la grande stampa, il milieu televisivo-cinematografico, gl’intellettuali engagè, i sindacati, parte della magistratura associata, la stessa presidenza della Repubblica, tendono a considerarlo un «incidente della storia», e «tifano» tutti contro.

Facendo leva sui timori della Lega, nonostante il lusinghiero risultato delle europee (6,6 %), di vedere prosciugato il proprio bacino elettorale da FI – che le fa concorrenza su molti temi e argomenti –, sulle manifestazioni di piazza contro la riforma pensionistica, e sull’eterna vocazione di certi democristiani a colpire a destra, in Parlamento viene ribaltata la maggioranza, e quindi cade il governo. A questo punto, il rispetto per l’elettorato imporrebbe il ritorno alle urne. Tuttavia, brandendo il divieto costituzionale del vincolo di mandato – che troppo spesso dà copertura giuridica al tradimento dell’elettore, che ha votato per una coalizione e se la ritrova smontata e diversamente ricomposta in Parlamento –, le elezioni invocate da Berlusconi vengono negate da quel sant’uomo del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, e la legislatura continua. Si insedia un nuovo governo, «tecnico» e presieduto da Lamberto Dini, già ministro di Berlusconi. Dopo Ciampi, un altro esponente della Banca d’Italia alla guida del governo, indizio di un progetto tecnocratico per l’Italia, che periodicamente continua ad essere prospettato come soluzione alla eterna «crisi».

2.3. La Personalizzazione dei Partiti e la Leadership carismatica.

Intanto, si afferma rapidamente la proiezione nazionale della dinamica del sistema elettorale uninominale. Come nel singolo collegio territoriale due o al massimo tre candidati si contendono l’elezione, allo stesso modo avviene nel grande ideale collegio nazionale che è l’Italia, con accentuazione bipolare: in due si contendono la titolarità del governo. Tutto si personalizza, e quindi anche i partiti sempre più si identificano con il leader, il cui nome comincia a comparire nel simbolo. Inoltre, il capo è sempre meno eletto che acclamato: alla stagione dei congressi e dell’equilibrio tra le correnti per eleggerlo, succede quella delle convention in cui viene ratificato il suo carisma. Piaccia o non, è un fatto, e un fatto weberianamente tanto legittimo, in determinate stagioni, quanto può essere problematico in altre. È soprattutto il fatto della primazia di Berlusconi.

2.4. Un Capo provvisorio?

Ma un capo «ribaltato» conserva il suo carisma? Qualcuno – e non solo in partibus infidelium (ai troppo seri: si fa per dire!): le testimonianze sono talmente tante e a tutti note che non vale la pena elencarle e nemmeno citarle –, che già lo giudicava un «incidente della storia» o tutt’al più una sorta di rompighiaccio per la sua potenza economica, è portato a ritenere che la sua provvisorietà si sia consumata prima del previsto. Il tempo del «piazzista», del «venditore di tappeti», è finito. È l’ora, come sarebbe naturale, della rivincita dei professionisti della politica, che già troppo hanno sopportato il vituperio, «politicanti», da parte di quella «piccola e piccolissima gente» – stanca del loro gergo, dei loro rituali, delle loro chiacchiere e fumosità, del loro strapotere che la ignora, rinchiusi come sono nei palazzi –, così abilmente blandita e sedotta da Berlusconi, ma che ora deve tornare nei ranghi, e accettare il ritorno della politica e dei politici «veri».

3. Le Elezioni del 1996: la Divisione delle «Destre» e dell’Elettorato. La Traversata nel Deserto e il tentativo di decapitare il Sovrano.

Le elezioni negate per un anno e mezzo smorzano l’entusiasmo dell’elettorato, mentre la Lega supera la crisi interna scaturita dal dissenso di molti suoi eletti nei confronti del «ribaltone» e dell’alleanza con la sinistra – quella che le valse la definizione, da parte del grande tattico senza respiro strategico, il signor D’Alema, di «costola» della medesima –, e si appresta a marciare da sola. Berlusconi da perfetto impolitico avverte gli umori della «gente» e il rischio della divisione delle «destre». Perciò, quando si dimette il governo Dini – che ha esaurito il suo mandato per il quale aveva chiesto e ottenuto la fiducia, la riforma delle pensioni –, è orientato a prendere tempo e a sostenere l’ipotesi di un altro governo «tecnico» e di transizione, per la cui formazione viene incaricato Antonio Maccanico. È questo il momento in cui – dopo tante cosine dette a mezza bocca – Fini batte il primo colpo: «No al governo Maccanico! Si voti!» (chissà, forse sperando, con l’inevitabile sconfitta, come insinuato dallo stesso Maccanico, di accelerare la successione del politico di razza al «piazzista»). Alla «geniale» decisione Berlusconi si piega: dopo una «destra» non se ne può perdere un’altra. E così si va a votare. La divisione delle «destre» divide anche l’elettorato: l’orgoglio identitario e la fedeltà al leader carismatico prevalgono tra i leghisti sulle ragioni dell’opposizione alla sinistra. Questa, a sua volta, con l’accordo tecnico di «desistenza» nei collegi crea un fronte (popolare) elettorale che va dal banchiere Dini al guevar-castrista Bertinotti, guidato da un cattolico «adulto» di scuola bolognese, che ebbe già un ruolo nella stagione del compromesso storico e nella gestione dell’ industria di Stato, il professor Romano Prodi.

Così, la minoranza nel Paese diventa maggioranza in Parlamento per effetto della legge elettorale (i consensi sommati del Polo per le libertà e della Lega superano il 50%, ma presentandosi divisi nei collegi uninominali ne consegnano decine e decine alla sinistra). È la prima «vittoria» (più avanti spiegheremo perché le virgolette) del Professore sul Cavaliere.

Inizia quella che con immagine efficace è stata definita la «traversata nel deserto» di una legislatura all’opposizione. Nonché molti, tutti sono convinti che un uomo che sa e vuole solo comandare e decidere, che non conosce altro che il lusso e il piacere, non reggerà a mangiare polvere per cinque anni in minoranza, e studiano di liberarlo dalla sofferenza con una pietosa eutanasia.

3.1. AN al Massimo storico. La Strategia del Sorpasso: l’Elefantino alle Elezioni europee del 1999.

In quelle elezioni AN – ufficialmente costituita con questo nome a Fiuggi nel 1995, araba fenice che nasce dalle ceneri del disciolto MSI-DN –, raggiunge il massimo storico, e mai più neppure avvicinato, del consenso: quasi il 16%. FI, invece, dopo il massimo ottenuto alle europee del 1994 (oltre il 30%), precipita al 20%. Il «partito di plastica» è giudicato contraddittoriamente – la plastica è notoriamente indistruttibile e la lungimiranza e l’acutezza d’analisi con le quali viene così definita FI alla fine sembrano, certo contro le intenzioni, averne colto la natura effettiva – destinato alla rapida decomposizione.

Presto, dunque, si mette mano ad una strategia del sorpasso. La prima occasione veramente utile è la scadenza per rinnovare il Parlamento europeo: elezioni simil-politiche e nazionali, proporzionali e quindi in perfetta concorrenza tra i simboli. Una bella alleanza, che più che sommare moltiplichi i voti con il coefficiente dell’unione di forze, sembra la strada giusta. L’interlocutore privilegiato è mister referendum, il perdente di successo con il quale oltre ad inaugurare una nuova stagione referendaria per abolire la quota proporzionale nell’elezione dei deputati alla Camera, si lavora per creare «una vera e propria armata liberaldemocratica» – come lui stesso, Mario Segni, dichiara (Corriere della Sera, 4-2-99) –, che costituirebbe per Fini una «novità politica di primaria grandezza», capace di soddisfare il «desiderio di primavera politica che c’è nel Paese». Commenta Ennio Caretto: «Con il corollario che Berlusconi non sembra più essere in grado di essere il protagonista di questa nuova primavera». I geni sono dunque all’opera, ma evidentemente o il paese desidera qualcosa di diverso da una «primavera», o hanno sbagliato stagione. Infatti, solo quattro mesi dopo, il 13 giugno 1999, sotto l’insegna dell’Elefantino e con in lista un po’ di radicali assortiti, il quasi 16 % di AN sommato al 3% abbondante da cui partiva il Patto Segni, fa 10,3%: in politica spesso due più due dà uno. Intanto FI, che sulla carta sembrava ormai lì a un passo, circa un punto percentuale di distanza, scatta al 25% e il divario si dilata fino al 15%. Della geniale mossa finiana l’unica a beneficiare pare essere la Bonino, che tocca con la sua lista un inimmaginabile e per fortuna unico 8%. Taccio sul pronostico di «Berlusconi non più protagonista» e sulle capacità di previsione e di giudizio di chi lo ha formulato.

3.2. AN da Fiuggi (1995) all’Assemblea programmatica di Verona (1998): la Piattaforma valoriale e l’Anti-anticomunismo. La Nomina di Mantovano e Contento Coordinatori Nazionali e l’immediata Retromarcia. La Battaglia culturale e politica sulle Issues bioetiche. Il Mandato referendario contro la Quota proporzionale: il Contrasto con Berlusconi in occasione del Referendum.

In questo periodo, oltre l’astuta trovata dell’Elefantino, Fini e AN sono impegnati a darsi un profilo politico, a disegnare la propria identità. Dall’atto fondativo del 1995 a Fiuggi si giunge alla convocazione di una Conferenza Programmatica a Verona nel 1998.

Questa è preceduta da una seria crisi interna. Il leader aspirante maximo con mossa repentina e non proprio democratica esautora i «colonnelli» – sui quali sarebbe da scrivere un capitolo a parte, ma forse non ne vale la pena –, i suoi fedelissimi dai tempi dell’organizzazione giovanile missina, e nomina coordinatori nazionali, rispettivamente per il centro-Nord e il centro-Sud, con pieni poteri, i giovani parlamentari, allora sconosciuti ai più, Manlio Contento e Alfredo Mantovano. Non solo, ma mette alla frusta il partito ordinando di trascorrere l’estate – mentre lui si dedica alle amate immersioni subacquee – a raccogliere firme per il referendum di cui s’è già detto, stabilendo anche una «norma», non raggiungendo la quale i responsabili locali avrebbero messo a rischio cariche, incarichi e candidature.

Ma vivente Giuseppe «Pinuccio» Tatarella, Fini è un capo a r.l. (responsabilità limitata). È sufficiente che questi gli mostri il viso dell’arme a tutela di chi ha il curriculum, e immediatamente innesta la retromarcia. Gli appena nominati «coordinatori nazionali» vengono degradati a responsabili per l’economia e per i problemi dello stato, il che equivale a nulla, là dove conta solo chi può concorrere a decidere le candidature bloccate o in collegi sicuri.

Il profilo identitario viene tracciato, oltre che modellandolo sui temi del presidenzialismo, della sicurezza e del contrasto all’immigrazione clandestina, anche intorno alle issues bioetiche. In ordine alle quali, conformemente all’esplicito richiamo dell’atto fondativo del partito alla Dottrina Sociale della Chiesa, Fini (proprio lui, scrive e sottoscrive) allora si esprime così: «[…] la fede può rappresentare uno dei motivi dell’impegno in favore della vita e della famiglia – e non vedo perché chi ne ha il dono se ne debba privare – ma non è essenziale. La linea di demarcazione è rappresentata dal diritto naturale: noi siamo convinti che esistono principi morali – non uccidere, non rubare, non dire il falso … – che sono validi in tutte le epoche storiche e in tutti i luoghi geografici, in quanto iscritti nella natura dell’uomo, e per questo vanno rispettati dal legislatore; siamo altresì persuasi che esistono istituti di diritto naturale, a cominciare dal matrimonio, che non sono un’invenzione delle confessioni religiose, ma ai quali queste ultime conferiscono forme sacramentali partendo da altrettanto naturali esigenze dell’ uomo. Non è un dogma di fede bensì una constatazione scientifica, che la vita umana, unica, individuale e irripetibile, esiste a partire dal concepimento: dal momento in cui, con la fecondazione dell’ovulo, si realizza la completa identità cromosomica, non vi è alcuna differenza, che non sia di peso e di età fra il nascituro, il nato e l’adulto. Negare l’umanità del concepito non significa essere “laici”: vuol dire chiudere gli occhi di fronte alla realtà; peggio: equivale ad aprire la porta al nuovo totalitarismo. Se infatti la vita viene fatta dipendere dall’età, e viene negata solo perché l’embrione è troppo giovane, non vi è alcuna ragione per rifiutarla quando è troppo anziana (ogni tanto ricompaiono ipotesi di eutanasia) o, in quanto è accompagnata dall’handicap, quando è lontana dall’optimum fisico e psichico: non a caso, nella discussione alla Camera, qualche esponente dei ds ha esortato a porre maggiore attenzione sulla “qualità della vita” piuttosto che sulla vita stessa» (Corriere della Sera, 31-5-99). L’intervento è relativo alla discussione di una legge sulla fecondazione artificiale dai contenuti analoghi a quella che poi sarà la legge 40, e sulla quale si era formata alla Camera una maggioranza pro-life trasversale, comprendente AN, Lega, CCD-CDU di Casini e Buttiglione, i popolari e parte cospicua dei deputati di FI. Non si tratta di un intervento isolato per toni e argomentazioni: citazioni analoghe potrebbero essere numerose.

Mentre FI è ancora nella sua fase a forte tonalità e presenza radical-libertaria (basti pensare al ruolo e alle idee di Antonio Martino e al rapporto con Marco Pannella, nonché a deputati come Marco Taradash, Lorenzo Strik Lievers, Benedetto Della Vedova, Tiziana Maiolo, Raffaele Iannuzzi, etc.), dunque il contrappunto di Fini è un profilo di AN che negli USA verrebbe definito social-conservative.

Con un’eccezione, però, e non poco significativa.

Alla già richiamata Conferenza programmatica di Verona Berlusconi si presenta sul palco tenendo in mano una copia fresca di stampa de Il libro nero del comunismo. Crimini terrore repressione. Un tomazzo con vistosa copertina rossa, traduzione italiana di un best seller collettaneo francese sui crimini mondiali del comunismo, che fa distribuire gratis al pubblico. Io c’ero, e ricordo i mugugni in sala di «aennini» assortiti, che sentendosi scavalcati in anticomunismo, anziché rivendicare una (forse più pretesa che reale, se guardiamo ai risultati e al modo) primogenitura in materia, fanno come la volpe con l’uva: disprezzano ciò che sembra sfuggir loro di mano. E ricordo anche la patetica invettiva di Adolfo Urso dal palco, che dell’anticomunismo contesta – con la pretesa di autorevolezza di chi è stato «anticomunista quando il comunismo c’era» – l’inutilità e l’inattualità. Un po’ come se l’antifascismo – poi riscoperto da Fini – fosse stato archiviato dopo il 25 aprile 1945 (ammesso e non concesso che il comunismo, come invece il fascismo, sia finito davvero).

Inizia l’inedito da quelle parti, ma molto ideologicamente antifascista, controcanto dell’anti-anticomunismo, fino a definire «disco rotto» il ricorso a tale argomento da parte di Berlusconi.

Altro punto di contrasto con Berlusconi è il sostegno che Fini dà al referendum per l’abolizione della quota proporzionale (un modo per non contarsi più come singolo partito nella coalizione e far valere invece la maggiore esperienza e «politicità»? oppure solo un modo per prendere ancora le distanze e «batterlo» almeno una volta?). Certo si è che l’impresa s’intreccia con l’elefantiaca strategia del sorpasso ed è an-ch’essa perdente: il 18 aprile anche questo referendum viene invalidato perché non si raggiunge il quorum del 50% più uno dei partecipanti. Berlusconi non va a votare.

3.3. Berlusconi ricuce e «nazionalizza» l’alleanza delle tre «destre». Le elezioni regionali del 2000 e la crisi del governo D’Alema.

Nello stesso torno di tempo – mentre il «vincitore» Prodi non supera i due anni di governo, e viene silurato dal grande tattico senza strategia, che gli succede alla guida dell’esecutivo grazie all’ennesima sceneggiata trasformistica in Parlamento, con la regia del presidente emerito Cossiga, e primattore una giovane promessa reduce dai trionfi di Ceppaloni –, il Cavaliere si dedica a ricucire l’alleanza tra le tre «destre», cui si è aggiunto il Centro abbandonato dall’attor giovane beneventano, e a nazionalizzarla, cioè renderla unica in tutta Italia, dalle Alpi leghiste alla Sicilia Cuffarizzata.

Nel 2000 si svolgono le elezioni regionali. D’Alema, capo del governo senza legittimazione elettorale, primo, e per fortuna ancora unico, tra quelli che furono (e sono?) comunisti a riuscirci, le trasforma in un referendum sulla propria leadership. Berlusconi allora ci mette la faccia. Inutile dire chi la spunta. Al grande tattico senza strategia, di nuovo sconfitto, non resta altro che dimettersi.

L’uomo dell’establishment internazionale politico-finanziario (la definizione è di Cossiga), colui che una notte mise le mani nelle tasche (conti correnti) degl’italiani per prelevare un obolo per lo Stato – senza neppure verificare se quei soldi fossero reali o solo virtuali, perché magari di passaggio o perché un assegno sarebbe stato addebitato l’indomani –, neppure lui legittimato da alcuna elezione, l’ineffabile Giuliano Amato, ha l’incarico di traghettare il Parlamento alla scadenza della legislatura, non senza che prima, con un colpo di mano a stretta maggioranza, venga modificata la Costituzione repubblicana, uno dei feticci del nostro tempo.

4. Le Elezioni 2001: l’Elettorato si ri-unisce. Il Governo Berlusconi bis. L’11 settembre. La «Svolta» di Fini. La Guerra (fredda) di Successione.

Nella primavera del 2001, allo spirare inglorioso della legislatura di centrosinistra – quattro governi in cinque anni, con il «vincitore» Prodi presto disarcionato e la vergogna del trasformismo parlamentare che modifica le maggioranze uscite dalle urne –, si va alle elezioni. Il paziente ed efficace lavoro di ricucitura delle tre «destre» consente all’elettorato di riunirsi, e quindi una maggioranza parlamentare riflette finalmente quella sociologica e popolare.

Pochi mesi dopo, l’«11 settembre» riporta tutti per un momento – purtroppo solo per un momento – al reale. Che il mondo, dopo il «crollo delle ideologie» si stia re-incantando non è più solo un modello interpretativo, bensì un fatto: le motivazioni cultural-religiose – nel bene e nel male, ancorché si tenderebbe sempre ad associare religione a bene, secondo l’esperienza benefica del cristianesimo – si ripresentano prepotentemente sulla scena della storia. Se il XX secolo è finito nel 1989, il XXI probabilmente inizia, dopo un periodo di «vuoto» (cioè di preparazione e maturazione di eventi), l’11 settembre 2001.

A sua volta, la nostra piccola storia (meglio cronaca?) registra la brusca svolta di Fini, a metà strada tra la ricerca storica e la politica, che compie la parabola di conversione del suo partito dal neo-fascismo d’antan, al neo-antifascismo del nuovo secolo. Poi, forse per il convincimento che il governo di cui è vicepresidente non possa durare per le sue «contraddizioni interne», come ripete la sinistra traducendo il proprio desiderio in (psico)analisi, si dedica inizialmente sottotraccia, poi sempre più in superficie e in modo sempre più aspro, alla «guerra (fredda) di successione» al capo. Per vincerla, Fini si allea – magari in vista di un successivo regolamento di conti fra loro, un po’ come, servata distantia, l’alleanza tra l’Occidente e Stalin per sconfiggere il primo Asse (del male) – con Casini (c’è sempre un Presidente della Camera, considerata anche la Pivetti, contro Berlusconi), riservando a Follini il ruolo di guastatore principe.

4.1. Le Torri Gemelle e la Svolta «occidentalista» e cristiana. Ratzinger e Pera. Ruini e il «Progetto Culturale». FI, la Lega e la Questione dell’Identità. La Fondazione Magna Carta e Norcia. Fini a Gerusalemme.

L’«attacco all’America» e la strage, scioccante per il modo e per il numero delle vittime, delle Twin Towers, modificano con la skyline di una città come New York la stessa percezione del profilo del mondo (ed ancora non si è del tutto compresa e valorizzata la dimensione «babelica» dell’evento: colpo alle smisurate torri edificate dall’orgoglio umano). È una sorta di autentico warning, all’inizio apparentemente per tutti, alla lunga solo per alcuni, circa il fatto che in gioco è il destino stesso della nostra civiltà, del nostro way of life, persino nei suoi aspetti più discutibili (o forse anche a causa dei suoi aspetti più discutibili?). E gli spiriti migliori, sebbene non religiosi e spesso dichiaratamente irreligiosi, comprendono l’importanza di difendere, anche con le unghie e con i denti, la ricaduta culturale e civile del cristianesimo in Occidente. Basterebbe fra tutti e per tutti il nome di Oriana Fallaci.

Ma forse ancora più emblematico e significativo, anche per le sue conseguenze politico-culturali, è il percorso del professore e senatore Marcello Pera.

Da posizioni «popperiane» e di liberalismo agnostico, senza fare alcuna concessione alla ostentazione di vicende personali interiori, giunge ad un dialogo memorabile a distanza con l’allora cardinale Ratzinger – che inizia con una conferenza dell’esponente politico alla Pontificia Università Lateranense e del prelato al Senato (di cui allora il prof. Pera era presidente) –, raccolto in un aureo volumetto intitolato Senza radici, dal sottotitolo esplicativo: Europa, relativismo, cristianesimo, islam. Il filo conduttore è il rifiuto del relativismo e del conseguente nichilismo tecnocratico, individuati come fattori di erosione fino alla cancellazione, in concorso con i massicci fenomeni migratori dalla marcata caratterizzazione religiosa, di quella realtà meta-geografica e meta-politica che conosciamo come Europa, e della sua gemmazione, l’Occidente.

In breve, l’impatto violento con la realtà islamista e terroristica e la constatazione della tendenziale scomparsa di anticorpi nelle nostre società, risveglia una coscienza se non sempre cristiana, almeno «cristianista», e occidentalista.

Questo «nuovo» atteggiamento incontra il «progetto culturale» del cardinal Ruini, allora presidente e guida dei vescovi italiani, oltre che vicario del Papa. Esso è sintetizzabile nella di lui formula «meglio contestati che irrilevanti», a proposito del ruolo dei cattolici nel proporre nello spazio pubblico in modo tematico ed organizzato il proprio «discorso» culturale e socio-politico (non partitico), rinunciando a delegarlo ad un singolo partito in cambio di qualche provvidenza economico-amministrativa. E lo incontra anche a livello politico, senza che vengano sanciti collateralismi di sorta, ma per effetto di una crescente sintonia di giudizi. Così, soprattutto FI e la Lega – mentre nel mondo in genere, ed in quello della cultura e della politica italiane in specie, si tende a minimizzare e ridurre il possibile conflitto tra culture e civiltà ad un difetto di comunicazione e comprensione reciproco – imprimono alla loro politica una forte e sempre più riconoscibile svolta identitaria, occidentalista e – come si diceva – almeno «cristianista».

Il professor Pera, insieme con un gruppo di studiosi e politici, promuove la Fondazione Magna Carta. A descriverne l’orientamento e gli scopi culturali più eloquente di ogni discorso è il nome che verrà dato al suo quotidiano on line: «L’Occidentale». Lo spirito è quello di porre in dialogo fede e ragione al di là degli orizzonti confessionali, e soprattutto di riconoscere che la libertà non può prescindere da qualche verità antropologica e sociale, che precede ogni consenso, e che costituisce l’argine ad un relativismo distruttivo e nichilista, fondando così una «laicità positiva», che non pretende di rinchiudere la religione e le chiese, soprattutto quella cattolica, nel ghetto della dimensione privata. A Norcia viene inaugurata una serie d’in-contri che ancora prosegue, e che viene letteralmente benedetta da un messaggio autografo – cosa davvero inusitata e perciò particolarmente significativa – di papa Benedetto.

Poco dopo l’11 settembre, Berlusconi – forse ingenuamente, ma certo sinceramente e soprattutto non a torto – esprime un giudizio di superiorità della nostra civiltà, attirandosi vituperi tanto ipocriti quanto violenti. Fini invece, al Cairo, dichiara che la nostra civiltà non ha nulla da insegnare all’islam, il che – almeno in tema di parità e tutela per le donne, di tolleranza religiosa e di sviluppo scientifico – sembra quanto meno azzardato. Sempre da quelle parti, spostandosi un po’ più ad oriente e precisamente a Gerusalemme, il leader aspirante maximo comunica ad AN la svolta storiografico-politica cui ho già fatto cenno. Mussolini non è più il «maggior statista del secolo XX», ma colui che ha dato corso ad un’esperienza politica che è addirittura «parte del male assoluto nella storia». Al di là del modo e del merito, va ricordato che un filosofo della politica insospettabile come Augusto Del Noce, aveva già escluso che si potesse individuare nella storia il «male assoluto»; e comunque, se c’è un’esperienza che gli si è avvicinata, è piuttosto l’insieme dottrina-prassi-sistema comunista.

4.2. La legge 40, il Referendum e i «Tre Sì e un No» di Fini. La Crisi in AN: l’Assemblea Nazionale di luglio 2005, la «Ritirata» dei Colonnelli e la «Caffettiera». La Democrazia e il Dibattito interno secondo Fini: le Correnti come Metastasi.

Nel corso della legislatura viene approvata una legge sulla procreazione artificiale, la famosa legge 40, che segna un punto di svolta della legislazione in materie che concernono la nascita, la morte, i diritti naturali dell’uomo e la sua soggettività giuridica. Infatti, l’art. 1 riconosce i diritti del concepito, cioè dell’uomo non ancora nato. È una legge dalle virtualità sistemiche, ed è la prima norma positiva della storia – a mia scienza – che riconosca la piena soggettività giuridica fin dal concepimento. Al di là di ogni valutazione di merito sull’intero impianto normativo che essa reca per regolare la materia della procreazione detta assistita – che è certo fuori dal tema che ci occupa –, va detto che tale legge è uno dei tasselli che formano l’«eccezione italiana» rispetto al resto del mondo occidentale per quel che concerne le questioni bioetiche e biopolitiche. Ed è un’eccezione che, sempre a mio avviso, fa dell’Italia un Paese d’avanguardia nella tutela della vita e della dignità naturale e incondizionata dell’ uomo, dal concepimento alla morte naturale.

Contro questa legge, la sinistra unita, dalle sue espressioni radicali a quelle vetero comuniste e persino sindacali (che c’entrano con la procreazione artificiale? È questa, mi sembra, una delle prove del panpoliticismo del sindacalismo italiano), propongono un referendum abrogativo. Per la prima volta su questi temi – dopo le consultazioni popolari sull’aborto ed il divorzio – è la sinistra a chiedere l’abroga-zione e sono il mondo cattolico, conservatore e di destra, nonché la stessa Chiesa che è in Italia, a difendere la legge. La tattica prescelta è quella d’invalidare il referendum proponendo l’astensione – opzione riconosciuta dai costituenti – con lo slogan «la vita non si mette ai voti».

Durante la campagna referendaria del 2005 – che è uno dei pochi momenti della recente storia nazionale in cui si alza il livello del dibattito pubblico culturale e politico e si anima anche dal basso la discussione –, intervenendo come un fulmine a ciel sereno, Fini comunica a tutto il centro-destra che egli andrà a votare e voterà «sì», cioè per l’abrogazione, a tre dei quattro quesiti referendari che cercano di capovolgere il significato della legge.

Se è vero che in quanto tali né il governo, né i partiti della coalizione avevano preso posizione ufficiale, è pur vero che la stragrande maggioranza dei comitati per l’astensione in difesa della legge, oltre quelli promossi dalla società civile e dalle organizzazioni pro life, erano costituiti e animati da gruppi ed esponenti politici tutti appartenenti ai partiti di centro-destra, con larghissima e quasi unanime partecipazione degli «aennnini». Ma soprattutto è vero, anzi verissimo, che oltre l’intervento sul Corriere del 1999 sulla medesima materia, dal quale sopra abbiamo citato un brano, in cui difende una posizione che poi confluirà nell’impianto della legge 40, Fini solo un anno prima, quando questa legge era in votazione in Parlamento, aveva preteso da tutto il gruppo di AN presenza assidua in aula e voto favorevole – salvo obiezione di coscienza – alle norme che solo un anno dopo ritiene meritevoli di essere cancellate.

Fini – in compagnia dei «cattolici adulti» alla Prodi, che ignorano le indicazioni pastorali dei vescovi, proprio in quanto loro sono «adulti» e non hanno bisogno di guide, e della sinistra unita contro la legge – va a votare. Con loro sono meno del 25% degl’italiani; ben oltre il 75% degl’italiani invece si astiene o vota «no» all’abro-gazione, e tra questi Berlusconi, che non va a votare. La legge è confermata a furor di popolo (ma non di magistratura, come si vedrà poi; questo però è un altro discorso).

La posizione del leader aspirante maximo, assolutamente minoritaria in AN, provoca una nuova crisi interna al partito. Fini ricorda persino di avere una volta «fumato», come oggi si dice, in gioventù – ma precisa che non gli era piaciuto –, e questo ricordo sollecita quello dell’on. Bocchino: pure lui da ragazzo aveva fumato droga (poteva mai essere da meno e lasciare solo il suo capo?). Lo sconcerto nel partito aumenta, e all’Assemblea Nazionale del luglio 2005 Fini è per la prima volta davvero in grave difficoltà. Sembra proprio che i «colonnelli», fedeli agl’ideali di destra tradizionali, siano finalmente in grado di emanciparsi e metterlo in minoranza. Ma, un po’ inspiegabilmente, fanno retromarcia e votano un generico documento sulle materie bioetiche in cui si esprimono, lasciando tuttavia il tempo che trovano com’è proprio di documenti di questo tipo, posizioni antitetiche a quelle finiane (o «finite»). Forse, se proprio si vuole azzardare una spiegazione per l’occasione persa, ciò accade per la difficoltà di mettersi d’accordo sulla successione e quindi per il timore in ognuno di favorire l’altro tra loro. Cert’è che quest’incertezza la pagheranno cara.

Solo qualche giorno dopo, infatti, in un bar del centro di Roma un giovane cronista capta e registra una conversazione in cui alcuni di loro criticano pesantemente e personalmente Fini. La sua reazione è furibonda. I «colonnelli» vengono degradati sul campo – uno di loro perde anche il posto di ministro –, in quanto cause ed effetti di quelle metastasi politiche che sono nei partiti le minoranze organizzate in correnti e componenti. Anche sul punto, come sulla difesa della vita, Fini sembra aver poi cambiato opinione, ed anche in questo caso senza mai spiegare perché.

4.3. La Richiesta della testa di Tremonti, la «Cabina di Regia» e la «Discontinuità». Il Lavorìo ai fianchi del Governo. Le Regionali del 2005, la Richiesta di Dimissioni del Governo e di Elezioni anticipate. Fini, Casini e Ferrara: Berlusconi ha completato il suo Ciclo, è l’ora di ritirarsi. La Campagna Elettorale «a perdere».

Intanto continua, anzi s’intensifica, la «guerra» (fredda) di successione. È chiesta la testa del ministro dell’economia Tremonti, trait d’union principale del rapporto tra FI e la Lega, pilastro del governo e della leadership di Berlusconi, ma soprattutto poco diplomatico nel censurare le incompetenze e le incapacità dei suoi colleghi di governo. In nome di una non meglio precisata «cabina di regia» per l’economia, Tremonti è sostituito e si procede ad un rimpasto di governo, il secondo da quando il ministro Ruggiero (che molti ritenevano l’uomo dell’establishment, e più specificamente di casa Agnelli, che potesse controllare il governo dei parvenu) era stato licenziato ad inizio legislatura con il plauso (e la copertura) del Wall Street Journal, uno dei più autorevoli organi di stampa di orientamento conservatore. Nel rimpasto, Fini chiede «visibilità» e diventa ministro degli esteri.

Viene invocata la discontinuità nell’azione di governo – come a dire: «finora s’è sbagliato tutto, o quasi» –, messo quotidianamente sotto pressione. Fini, Casini e Follini sono qualcosa di più di una spina nel fianco, nonostante che il primo sia ministro degli esteri, il secondo presidente della Camera, il terzo addirittura vice presidente del Consiglio, e si mettono sempre di traverso quando si prova a diminuire le tasse per mantenere il «patto con gli elettori», sottoscritto dal candidato Berlusconi in diretta televisiva, e che uno studioso dichiaratamente di sinistra e autorevole come Luca Ricolfi ha poi dichiarato essere stato sostanzialmente rispettato.

In questo clima, le elezioni regionali del 2005 non possono che essere perse. Al centro-destra rimane il governo solo – si fa per dire – del Lombardo-Veneto. È l’ora del de profundis. Si chiedono, più o meno sottovoce, le dimissioni eutanasiche del governo e l’anticipo di un anno della fine della legislatura. Giuliano Ferrara dice ad alta voce quel che Fini e Casini pensano o soltanto sussurrano (naturalmente non intendo insinuare che sia loro mandatario). «Il ciclo di Berlusconi è finito. Ha fatto molte e grandi cose, è però ora di riconoscere che il suo tempo è trascorso e di ritirarsi in buon ordine». Quanto sia lungimirante questa tesi, dopo cinque anni, è oggi facile valutare.

Ad ogni buon conto, si arriva alla fine naturale della legislatura e inizia la campagna elettorale per rinnovare il Parlamento e soprattutto «scegliere» (le virgolette sono d’obbligo, trattandosi di effetto sancito dalla «costituzione materiale» e non da quella letterale e formale) il nuovo capo del governo. Il titolo è conteso da Berlusconi – ma viene imposto lo schema a tre punte (le altre due sarebbero Fini e Casini: primus inter pares?) – e Prodi. Però le due punte di complemento sembra che giochino come il peggior Balotelli: s’impegnano poco e sembrano anche un po’ strafottenti. Un osservatore malizioso potrebbe addirittura pensare che hanno giocato a perdere, forse perchè rassegnati ad una sconfitta che i sondaggi danno per inevitabile ed anche sonora – o per rendere una rotta la sconfitta pronosticata, affinché li togliesse da una situazione di minorità sempre più per la sovrastima di sé per loro insopportabile, risolvendosi per costoro nella vittoria della «guerra (ormai caldissima) di successione»? Chi ha vissuto, ha visto, e credo che non possa aver visto altro.

5. Le Elezioni del 2006. Dalla Sconfitta annunciata alla Quasi-Vittoria: Berlusconi contro tutti.

Il Cavaliere solitario – rimando i troppo seri a Josef Pieper e alla sua apologia dell’humour, come dono cristiano in stretto rapporto con la cristiana virtù dell’umiltà, nel saggio Sulla temperanza (p. 90 dell’edizione del 1965) – s’impegna allo spasimo nella campagna elettorale. Percorre l’Italia intera di comizio in comizio, e raggiunge il punto massimo d’impatto sull’elettorato probabilmente quando a Vicenza, in occasione della riunione di Confindustria, insolentisce il sinistrismo dei «grandi» seduti nelle prime due file, suscitando l’ovazione dei «piccoli» delle file posteriori e ultime.

Nessuno capisce la «rimonta» nessuno ci crede, nonostante che i «suoi» sondaggi l’avessero praticamente fotografata. Anzi, le trasmissioni elettorali non appena sono terminate le operazioni di voto annunciano un divario tra gli otto e i dieci punti percentuali a favore del centro-sinistra.

Ancora una volta sfugge ai più – certo ai sondaggisti che sempre, e sottolineo sempre sottostimano il consenso per il centro-destra – l’esistenza di un popolo italiano «profondo», la «piccola e piccolissima gente» che non interessa a nessuno e che però fa la differenza.

Alla fine poco più di ventiquattromila voti (lo 0,06%!!) su quaranta milioni espressi dividono i due schieramenti nell’elezione della Camera, mentre in quella del Senato prevale lo schieramento di centro-destra.

Si è votato con una legge elettorale diversa, proporzionale, che premia il partito o la coalizione che prenda anche un voto in più con una cospicua maggioranza in seggi. Ma se questo accade alla Camera – e così la «sconfitta» elettorale diventa netta –, non accade al Senato, dove c’è una sostanziale parità di seggi. Politicamente è un pareggio (almeno), ma se si considerano le aspettative, per il Cavaliere è un trionfo. E tutto suo. Fini e Casini lo capiscono e fanno buon (?) viso a cattivo (!), per loro, esito.

5.1. La Hybris di Prodi. I DICO e il Family Day.

Un uomo meno vanitoso e pieno di hybris di Prodi avrebbe capito il risultato delle urne, e si sarebbe adattato ad un governo alla tedesca, un governo di «larghe intese» o di grosse koalition, inevitabile quando le elezioni «bipolariste» si concludono con un sostanziale pareggio nel paese ed anche in Parlamento, o almeno in uno dei suoi rami. Ma il professore bolognese, con la sua feroce bonomia, non rinuncia a proclamarsi per la seconda volta «vincitore» di Berlusconi e tira dritto.

Prima di valutare la sua scelta, non si può fare a meno di rilevare l’assoluta infondatezza della sua pretesa.

Se Prodi – in entrambe le occasioni, come si vanta – avesse davvero «battuto» Berlusconi, se cioè avesse avuto più consenso di lui alla testa di una coalizione e di un elettorato politicamente omogenei e compatibili, avrebbe portato a termine le legislature. Ed invece non c’è mai riuscito, perché non è stato mai sostenuto dalla maggioranza, e da una maggioranza non solo numerica, sia degli elettori che dei parlamentari.

Nel 1996 approfitta della legge elettorale e dei suoi effetti se l’avversario è diviso, nonché della spregiudicatezza con la quale mette insieme chi non può stare insieme. Glielo ricorda D’Alema, prima con le parole e poi, poco dopo, con i fatti, «silurandolo». Se i fatti sono noti, forse le parole sono state dimenticate. Il grande tattico senza strategia le pronuncia nello stesso discorso al seminario di Gargonza più sopra ricordato. «Noi non abbiamo vinto le elezioni. Questo è un gravissimo errore di valutazione, e se si parte da un’analisi sbagliata della realtà se ne traggono conseguenze gravissime. Noi abbiamo perduto le elezioni. Le abbiamo perdute anche proprio numericamente. Tra il ‘94 e il ‘96 le forze politiche che si sono poi raccolte nell’Ulivo hanno preso due milioni di voti in meno; questi sono i numeri che ho la cattiva abitudine di andare a leggere ogni tanto. Soltanto che sono stati combinati meglio in una grande operazione politica in cui, superando vecchie divisioni, barriere e combinando questa alleanza in una forma che è andata oltre un patto partitico eccetera, abbiamo sfruttato l’effetto del maggioritario mettendo in campo il fatto che noi eravamo una minoranza di questo Paese». Di qui le virgolette che incorniciano sopra «vincitore» e «vittoria»

Nel 2006, vale lo stesso discorso quanto alla omogeneità dell’Unione – mostruosa coalizione che comprende i «reazionari» della Liga Fronte Veneto, gli Autonomisti Lombardi, gli schuetzen altoatesini, i pensionati, Mastella, i radicali, i manettari, i verdi, gli ex democristiani e gli ex, post e neo comunisti. E anche quanto al risultato, in sé stesso inattendibile, perché lo zerovirgolaseipermille di differenza non ha alcun valore statistico e tanto meno politico, potendo essere effetto – a prescindere da ogni ipotesi di brogli – dell’inversione anche solo erronea di un voto ogni tre-quattro sezioni elettorali. E poi l’elezione del Senato dà un risultato opposto, a lui sfavorevole.

Ciò nonostante, come si diceva, Prodi non rinuncia alla corona di alloro – mentre un governo di coalizione avrebbe forse davvero neutralizzato Berlusconi, che non può essere altro che il capo della maggioranza o dell’opposizione, ma non può vivacchiare come secondo da nessuna parte –, e come tutti quelli che Dio vuol mandare in rovina perde il senno, procedendo come se avesse in poppa il vento impetuoso di un consenso politico debordante.

Non concede nulla sull’elezione delle tre cariche istituzionali – addirittura commenta l’esito di esse con un tracotante «tre a zero» – e forma un esecutivo fortemente sbilanciato a sinistra, il più a sinistra della storia italiana, componendolo con esponenti delle forze storicamente nemiche del nome cristiano e dell’Occidente, radicali e comunisti dichiarati.

La sua insana hybris lo spinge addirittura a tentare di abolire la circolazione del denaro contante – che fu già un irrealizzato progetto bolscevico –, e a costringere tutti gl’italiani a contrarre un rapporto di conto corrente con le banche, cui certo la cosa non dispiace punto. Naturalmente a fin di bene, per stroncare l’evasione fiscale. Come se per eliminare la delinquenza si imponesse il coprifuoco dalle 12:00 alle 10:00 del giorno dopo. I professionisti, i commercianti, gli artigiani, i piccoli e medi imprenditori e tutte le categorie contro le quali nei tempi passati fu organizzata la lotta di classe vengono tartassati, affinché «anche i ricchi piangano». In pochi mesi si mobilita la reazione sociale non sindacalizzata, e le piazze sono riempite da cittadini che di solito le frequentano solo per una passeggiata in famiglia, fino all’imponente manifestazione convocata a Roma in p.zza san Giovanni, dalla quale la folla deborda nelle strade adiacenti, dal centrodestra e dalla Lega.

La protesta assume anche una dimensione etico-antropologica con il family day.

È infatti sulle issues bioetiche e biopolitiche, come negli Stati Uniti, che s’inasprisce il conflitto. Il governo prima ritira l’adesione dell’Italia alla «maggioranza di blocco» che impedisce alla UE di finanziare la ricerca sulle staminali embrionali (praticamente la vivisezione, a scopo di ricerca, dell’uomo piccolissimo) così vanificandola, poi e specialmente licenzia un disegno di legge con il quale si vuole l’istitu-zionalizzazione, conferendo loro rilevanza giuridica ex se, delle convivenze «affettive», anche tra persone dello stesso sesso.

I famigerati DICO (DIritti dei COnviventi), che portano la firma di due cattolici «adulti», il presidente del consiglio e la signora Bindi, sono avvertiti non solo dal mondo cattolico come il più grave attacco dopo il divorzio all’istituto familiare – «società naturale fondata sul matrimonio» – per la sua equiparazione a ciò che è per definizione instabile e privo di valenza giuridica, come il mero fatto della convivenza, e addirittura strutturalmente infecondo e perciò socialmente irrilevante come il rapporto omosessuale. Una simile relativizzazione e discriminazione di un istituto che dagli albori della civiltà è posto alla base della convivenza umana, non può essere accettata. Il bene comune è in pericolo. Una magnifica manifestazione per la famiglia raduna ancora una volta chi in piazza di solito non scende mai. Oltre un milione di persone convengono a Roma. Il residuo di copertura cattolica al governo di sinistra si sfrangia viepiù. È probabilmente l’inizio della sua fine, testimoniata dalla parallela e patetica manifestazione opposta al dies familiae cui partecipano poche centinaia di reduci del Sessantotto e delle imprese radicali.

5.2. La Rabbia di Berlusconi (la Minoranza/Maggioranza, la Conta dei voti e i Senatori a Vita), la Connivenza di Fini e Casini.

Berlusconi, intanto, «non ci sta». La sua rabbia monta. Si sente defraudato e soprattutto solo. Lo zerovirgolaseipermille di differenza contiene in sé l’errore statistico – e probabilmente doveva essere quello l’argomento per chiedere che venissero ricontati i voti, non la denuncia di «brogli» tanto verosimili quanto difficili da provare –, ed è difficile rassegnarsi. Specialmente se nell’altro ramo di un Parlamento retto dal bicameralismo perfetto, quindi dalla piena equipollenza tra le due assemblee, la maggioranza sia pur lievissima conquistata sul campo viene prima compromessa dalla geniale legge elettorale per gl’italiani all’estero e dall’ancor più geniale gestione della stessa (non a caso a sinistra s’ironizza invocando «Tremaglia santo subito»), che fa del senador Pallaro l’ago della bilancia – a suon di prebende – delle votazioni. E poi, in occasione di numerose votazioni, viene addirittura ribaltata, quel che è più grave, dai senatori a vita. Per la prima volta nella storia repubblicana i senatori a vita – che per definizione non riflettono le scelte e l’orientamento dell’elettorato – sono non solo numericamente decisivi, ma soprattutto sono assiduamente presenti e votanti ogni volta che la «minoranza/maggioranza» è a rischio, e la sostengono. In termini di diritto costituzionale nessuno può avere alcunché da eccepire, ma è certo un problema politico e di democrazia enorme se dei non eletti ribaltano o anche solo condizionano la maggioranza designata dalle urne. Ed è poi sintomatico che tra essi, tutti i politici risalenti ai tempi della Costituente, anche quelli nominalmente «moderati», sostengono un governo di sinistra e di sinistra estrema in alcuni suoi componenti, ad ulteriore conferma delle origini sinistre della Repubblica, anche quando sembrava governata dal centro e da tranquilli borghesi.

E se a fronte di tanto Berlusconi scalpita, Fini e Casini nicchiano, e la loro connivenza somiglia troppo all’attesa che l’altro si «bruci» per la sua stessa agitazione. Certo, non gli danno una mano nello sforzo di far emergere le contraddizioni – destinate comunque ad esplodere – dell’Unione, tanto che quando dopo neppure un anno dal suo insediamento il governo va per la prima volta in crisi, e si dimette per il fatto di essere stato battuto al Senato su questioni di politica estera, non si uniscono a Berlusconi nel chiedere elezioni, così concedendo al Presidente della Repubblica un ineccepibile argomento per non sciogliere le Camere e conferire un nuovo incarico a Prodi.

5.3. Dopo la «Spallata» mancata e il «Calcio dell’Asino», il «Predellino». Il Papa non parla alla Sapienza e Prodi cade. Fini si arrende. Nasce il PDL: il Co-Fondatore coatto.

La legge finanziaria per il 2008 sembra l’occasione per la «spallata» decisiva al governo. Berlusconi forse ne parla troppo, ma comunque in quel mese di novembre sembra fatta, tanto che si attiva il «soccorso rosso» della magistratura, che s’inventa un’inchiesta per compravendita di voti in Senato, come se l’eletto non fosse libero dal vincolo di mandato. L’inchiesta finirà – ovviamente, ma altrettanto ovviamente senza che nessuno paghi – in una bolla di sapone (forse anche meno, per consistenza), e tuttavia ha i suoi effetti. La «spallata» non c’è: da chi si attendeva un voto contro, giunge invece un voto a favore, e il governo supera lo scoglio.

Il leone sembra sconfitto e morente, l’asino lungimirante non esita a sferrargli il suo calcio. Sul Corsera del giorno dopo – scritta nottetempo, o già pronta? –, compare una lettera di Fini che censura la politica di opposizione dura finalizzata a far cadere il governo, invitando il centro-destra a superare Berlusconi e ad accedere ad un dialogo riformista con la «maggioranza», destinata a durare fin quando non fosse stata riformata la legge elettorale. Come sempre, Fini aveva capito tutto.

«Anziché tirare le cuoia come assicurato da Berlusconi, Prodi tira a campare e si prepara ad anestetizzare le prossime fibrillazioni della sua coalizione […]. L’opposizione […] in Parlamento è sostanzialmente impotente, nonostante i numeri di Palazzo Madama. Per il centrodestra, se non vogliamo che Prodi abbia gli anni contati, è davvero doveroso riflettere e cambiare strategia. Alleanza nazionale si augura che ciò accada in fretta e unitariamente, perché dividerci oggi sarebbe davvero imperdonabile. Al centrodestra serve una strategia semplice e chiara che parta da un dato politico tanto ovvio quanto fin qui pervicacemente negato da Berlusconi. Il governo cadrà un secondo dopo che si avrà certezza che dopo Prodi non si torna subito alle urne con l’attuale legge elettorale. Giusto o sbagliato che sia è così, perché continuare a negarlo contro ogni evidenza? L’attesa dell’implosione della maggioranza rischia di essere l’attesa di… Godot […]. Il 2008 può essere […] l’anno di poche ma indispensabili riforme […] se il centrodestra vuol dimostrare di avere a cuore l’interesse nazionale e non solo il suo legittimo interesse di schieramento, ha il dovere di provarci seriamente. An intende farlo […] per non assumersi la responsabilità di sacrificare, sull’altare di una sterile unità di coalizione, la sua stessa ragione fondativa. Contribuire al varo di una Nuova Repubblica» (Corriere della Sera, 16-11-2007).

Ogni virgola di questo testo meriterebbe di diventare materia didattica sulla lungimiranza e la capacità di comprendere la situazione politica di un leader aspirante maximo.

Sta di fatto che se Godot non è mai arrivato, «l’implosione della maggioranza» invece arriva subito. E solo Fini e Casini non la vedono dietro l’angolo, non capiscono che cosa stia succedendo. Semplicemente perché è per loro inaccettabile che ancora una volta non solo Berlusconi abbia ragione, ma sopravviva a quella che a loro sembra (wishful thinking?) l’ennesima catastrofe per lui mortale.

Che il leone sia tutt’altro che morto e che il calcio dell’asino sia sferrato all’aria è immediatamente manifesto. Il 18 novembre, dal predellino di un’auto, preso dall’entusiasmo dei suoi sostenitori che si accalcano intorno a lui e dagl’inviti che gli rivolgono a «fare da solo» lasciando perdere Fini e Casini, Berlusconi annuncia il battesimo del già esistente «Popolo della Libertà».

Finalmente un ciclo si compie: pur con tutte le mutazioni – talvolta anche profonde e non sempre positive – che ha subito nei decenni, quel popolo di destra diffusa, costretto a votare e sostenere chi non aveva nessuna intenzione di rappresentarne istanze, sensibilità e principi, viene «riconosciuto», non è più politicamente orfano, almeno all’anagrafe.

Fini è furibondo: le «comiche finali», il macabro riferimento alla differenza anagrafica, la solenne dichiarazione che non avrebbe mai sciolto An per entrare in un nuovo costituendo soggetto politico «fondato da un’automobile», la patetica contro-manifestazione nella stessa piazza del «predellino» sono fatti troppo noti e recenti perché sia necessario descriverli e raccontarli.

Purtroppo per lui, però, passano solo un paio di mesi e subito dopo non essere riuscito a garantire al Papa la sua libertà di parola nell’Università romana fondata dalla Chiesa cattolica – sarà un caso –, il governo va in agonia e muore. Non passa un «minuto», che le agenzie battono la solenne dichiarazione di Fini, «Berlusconi è il leader». Stavolta non chiude gli occhi davanti alla realtà e si arrende ad essa, che lo costringe a co-fondare il PDL, pena l’irrilevanza politica (anche perché la legge elettorale non è stata cambiata, né lo sarà, a mio avviso per lungo tempo). Ma se lo lega al dito.

6. Le Elezioni del 2008. Il Trionfo di Berlusconi, della Lega e dell’E-lettorato unito. Fini Presidente frondista della Camera. La sinistra in via di Estinzione.

In pochi mesi tutto precipita e la storia recente d’Italia ha una brusca accelerazione.

Il nuovo soggetto politico – più un «popolo» che un partito – si forma a tempo di record, conclude le sue alleanze nello spirito maggioritario, cioè costituendo una coalizione con formazioni a vocazione territoriale e non nazionale, la Lega e il Movimento siciliano di Lombardo, ed è pronto alle elezioni. Nonostante qualcuno provi a procrastinarle per riformare la legge elettorale (usando come pretesto l’incombente referendum su di essa, che è la solita arma spuntita), esse sono inevitabili per le dimissioni del governo e l’implosione dell’Unione che portava in sé il germe della propria dissoluzione (il che dà la misura di quanto Prodi avesse «vinto»), e naturalmente Berlusconi non si lascia ingannare.

Ancora una volta i sondaggi – anche quelli non dell’ultim’ora, ma del minuto dopo la chiusura delle urne – non riconoscono l’italico «Popolo della Libertà» e ipotizzano un sostanziale equilibrio tra le due coalizioni nel Paese, con effetti numerici di parità al Senato. Veltroni, che ha contribuito non poco – come fece il suo gemello diverso D’Alema nel 1998 – alla fine di Prodi per succedergli, parla di rimonta. Fini ci spera. Casini è stato fortunatamente messo fuori dal gioco: almeno una spina è stata tolta dal fianco del centro-destra.

Il risultato invece è clamoroso e la Lega, che ha marcato la sua curvatura identitaria e cristiana, vi contribuisce in misura rilevante. Tra le due coalizioni ci sono nove punti percentuali di distanza. E se si considerano anche gli elettorati (gli elettorati!) de La Destra – formazione nata da una scissione «coatta» da AN, testimonianza della democrazia interna in essa vigente – e dell’UDC di Casini, certo non tendenti a sinistra, la distanza si avvicina ai venti punti percentuali.

Per la prima volta dal secondo dopo guerra la sinistra comunista di nome oltre che di fatto è fuori dal Parlamento: l’anticomunismo si compie, almeno sul piano formale e fortemente simbolico. Fini diventa Presidente della Camera. Qualcuno pensa ad un pensionamento ultra-dorato, ma è intuibile fin da subito la sua intenzione frondista.

6.1. Fini, da Enrico Ameri e Domenico Fisichella a Italo Bocchino e Alessandro Campi; dalla Dottrina Sociale della Chiesa a FareFuturo: Immigrazionismo e Laicismo «Politicamente Corretti». Gli Esclusi dall’Arco Costituzionale Patrioti della Costituzione. Il caso Englaro, il patto Molotov-Ribbentrop e lo «Stato Etico».

Fini, che agli inizi della transizione dal MSI-DN ad AN si presentava in televisione accompagnato dal noto radiocronista Enrico Ameri – già milite a Salò e per questo prigioniero di guerra – e dal politologo monarchico-sabaudo, studioso di de Maistre nonché ispiratore dell’idea di un’Alleanza Nazionale, professor Domenico Fisichella, da Presidente della Camera passa ad altri compagni di viaggio.

Italo Bocchino – ma anche Adolfo Urso, Flavia Perina, Fabio Granata, e soprattutto la radical-progressista Giulia Bongiorno – e il professor Alessandro Campi costituiscono la sua nuova corte. Il Secolo d’Italia e la fondazione FareFuturo sono i suoi principali strumenti di elaborazione e comunicazione culturale e politica e fin da subito evidenziano un tono futurista-fiumano, in salsa politicamente corretta.

La Dottrina Sociale della Chiesa, espressamente richiamata nei primi documenti programmatici di AN, viene sostituita tra le fonti d’ispirazione politica da un laicismo di maniera, che lo spinge finanche a chiamare in causa – con un ennesimo marchiano errore storico e di prospettiva – una pretesa inerzia della Chiesa a fronte dell’orrore delle leggi razziali fasciste, che l’avrebbe resa connivente se non corresponsabile. Una chiamata in correità?

Il contrasto all’immigrazione clandestina senza se e senza ma e comunque la tutela dell’identità culturale e religiosa della nazione dai flussi migratori incontrollati – che lo avevano indotto a firmare con Bossi (!!!) una legge addirittura definita xenofoba e razzista dai più accesi propagandisti di sinistra – vengono sostituiti dal più convenzionale degl’immigrazionismi. Conforme ai canoni di questa nuova ideologia – secondo la quale l’immigrazione è un bene in ogni caso (come se gl’immigrati fossero contenti di emigrare!) o quanto meno è il giusto prezzo che l’Occidente deve pagare ai Paesi del Terzo Mondo cosiddetto per le sue malefatte coloniali –, giunge fino al punto di teorizzare non solo e non tanto la cittadinanza brevissima per gli extracomunitari, ma addirittura la sostituzione del popolo italiano con i «nuovi» cittadini per fronteggiare la denatalità.

Persino il presidenzialismo, antica bandiera della Destra Nazionale, è messo in discussione, in nome della «centralità del Parlamento», tenue sostanza di un neoparlamentarismo – apologia fuori tempo della donosiana clase discutidora – che nasce già morto.

La Costituzione repubblicana, in nome di un «istituzionalismo» che suona tanto stantio quanto ipocrita, viene eretta a vero e proprio feticcio – come se non fosse un documento scritto da uomini in determinate circostanze, e perciò stesso datato per definizione –, al séguito, quindi in posizione di retroguardia, degli esponenti e custodi più vecchi dell’«Ordine Repubblicano». Sicché e paradossalmente, chi fu escluso dall’Arco Costituzionale, paria della politica, diventa il più acceso patriota della Costituzione, credendo di poter fondare su tale patriottismo la coesione nazionale.

Sui temi bioetici e antropologici, poi, il mutamento è diametrale rispetto alle posizioni espresse fino a pochi anni, se non mesi, prima e codificate nei documenti programmatici del partito, oltre che condivise dalla stragrande maggioranza dei suoi elettori, militanti, quadri e dirigenti ad ogni livello.

Il caso-Englaro, più ancora che i tre sì e un no al referendum sulla procreazione artificiale, certifica quella che potrebbe essere definita svolta antropologica se l’e-spressione non fosse eccessiva avuto riguardo alla qualità di essa e dei suoi protagonisti. Come tutti sanno, la magistratura con una sentenza esorbita dai propri poteri – secondo un maestro del diritto come il professor Gazzoni –, e di fatto scrive una norma eutanasica. Il governo, mentre ne è in corso l’esecuzione non nutrendo e idratando più (fuori della neolingua gergale: affamando e assetando) una sventurata ragazza, vota all’unanimità un decreto legge che impedisca questo primo episodio di eutanasia «legale». Il Presidente Napolitano rifiuta di promulgarlo. Fini si associa, contro il governo e la quasi unanimità del PDL e della coalizione, con la Lega in prima fila. A suo tempo ho commentato così e mi permetto l’inelegante auto-citazione. «La riedizione di una sorta di patto Molotov-von Ribbentrop tra alte cariche istituzionali, con i suoi protocolli segreti, non già contro la Polonia e i Paesi baltici, ma contro la vita, è uno dei passaggi più emblematici della crisi della ragione pubblica nell’Occiden-te ammalato di nichilismo e relativismo. Ma forse è anche troppo evocare simili temi per simili personaggi: essi sono soltanto tristi e mediocri figure agite sulla scena del-la storia da forze di cui ignorano anche solo l’esistenza. Ancora una volta la condanna a morte di un innocente è segno di contraddizione. Ha ragione Langone: E-luana è tanto più viva di loro da rivelarne il vero volto. E non è un bel vedere». Quando poi al Senato viene approvata una legge, che recepisce i contenuti e gli scopi del decreto legge cui non è riuscito, per l’opposizione del Capo dello Stato, di salvare la vita ad Eluana Englaro, Fini ne blocca di fatto l’iter alla Camera e straparla di «stato etico». Egli dimostra così di ignorare che tale nozione postula e descrive la volontà dello stato di essere esso fonte dell’etica, cioè precisamente l’opposto di uno stato che invece, come ha ritenuto il governo italiano, davanti alla legge naturale si ferma, e sa che non ha il potere di consentire trasgressioni o anche solo eccezioni ad uno dei suoi, in fondo pochi, principi: il divieto di uccidere l’innocente, che viene prima di ogni legislazione positiva, anzi la regola e la giudica.

Insomma, quanto più PDL e Lega assumono connotazioni tradizionalmente di destra, identitarie e cristiane, tanto più Fini dice e fa cose di segno opposto, che gli procurano gli applausi della sinistra. Per non parlare dei suoi continui distinguo, quando non è aperta opposizione, rispetto praticamente ad ogni tendenza e progetto del governo e della maggioranza, non trascurando di frapporre non pochi ostacoli alle loro iniziative parlamentari, dall’alto della sua carica di garanzia, come sta avvenendo in materia di «testamento biologico».

Tutto in nome e in funzione di una maggiore democrazia interna? O non è più emblematico, per interpretare il suo atteggiamento, il «fuori onda» con un magistrato, in cui più delle parole di dileggio su Berlusconi pesano gli ammiccamenti e sorrisetti che le accompagnano e l’aspettativa «messianica» (sarà finalmente lui a «liberarci»?) del pentito Spatuzza?

6.2. Il NazionalPopulismo «cristiano» del PDL.

Quando viene definita la composizione del governo, qualcuno nota e lamenta una pretesa assenza di esponenti cattolici. Il giudizio è chiaramente effetto della permanente confusione tra democristiano e cattolico in politica. In realtà, nel DNA del PDL – altra cosa è il suo sviluppo fenomenico – vi è tutto l’ethos nazionale, che è più cattolico di quanto sia tale la cultura di tanti cattolici «impegnati». Il professor De Marco lo coglie con uno splendido articolo, in cui sottolinea il sentire e giudicare cattolico di larga parte del popolo italiano (e del governo che ad essa si rivolge e da essa trae consenso), a prescindere e spesso nonostante che coloro che la compongono non siano praticanti assidui e neppure virtuosamente impegnati nella Chiesa, e forse neppure virtuosi tout court. «[…] il nuovo blocco elettorale di maggioranza e di governo in Italia appare costituito in maggioranza proprio da cattolici “modali”. Ossia da quei cattolici che non siedono nelle prime panche delle chiese, non operano nei consigli parrocchiali, non leggono saggi di teologia, ma credono nella morale cattolica anche se la praticano con difficoltà, fanno frequentare ai figli l’ora di religione nelle scuole (diversamente dai cattolici progressisti, che non lo fanno) e non amano sentire dire dai catechisti che il diavolo non esiste e neppure esiste il peccato.

«Vi è in questi cattolici poco assidui un attaccamento al nucleo istituzionale e dogmatico cattolico, magari ereditato dal catechismo, che nei cattolici “qualificati” non c’è, nonostante la maggiore cultura religiosa di questi ultimi. Credo che tra i politici che governano oggi l’Italia siano scarsi gli atei professi […], o gli scettici anticattolici […]. Dal punto di vista socioreligioso l’attuale classe governante è cattolica, cattolica secondo realtà, la realtà composita della “Chiesa di popolo” italiana. È cattolica in quanto consente sull’essenziale della visione cattolica del mondo. Questo consenso non fa, per sé stesso, le persone virtuose. Ogni credente, specialmente se umile, sa di essere nel peccato e di non avere garanzia di salvezza personale, se non per la misericordia di Dio e la mediazione della Chiesa. […]

«Sia la base elettorale moderato-conservatrice, sia l’attuale governo italiano possono dunque essere detti cattolici, sia pure in un senso radicalmente diverso rispetto alla passata lunga stagione della Democrazia Cristiana. […]

«Per questo la presenza e la guida della Chiesa sui fondamentali cristiani e umani, se ha oggi lo svantaggio di non disporre della storica intermediazione dei laicati addestrati a questo, ha il vantaggio di rivolgersi in Italia a una società ancora cristianamente sensibile e a quadri di governo non ostili od estranei alla Chiesa, come invece sono le culture politiche marxiste e laiche radicali che la tradizione cattolica “virtuosa” ha più volte legittimato a governare.

«Se oggi il Principe non è più cristiano nel senso delle società di Ancien Régime, neppure è anticristiano. Né saranno i cattolici modernizzanti ad imporre quasi da soli, oggi, la finzione di una sfera pubblica laicamente neutralizzata. Non è casuale che i meno capaci di orientare cristianamente l’agire politico, in Italia e in Europa, siano oggi proprio loro, i cattolici “virtuosi” laico-democratici. Nella stagione conciliare essi avevano troppo scommesso, per autenticare la legittimità dei cristiani ad esistere, su una compenetrazione tra cristianità e modernità che idealizzava il Moderno come nuova cristianità trasfigurata e realizzata. […]

«Per riassumere. Primo: l’immagine di un parlamento e di un governo “senza cattolici”, e conseguentemente di una Chiesa senza referenti politici, si alimenta di una diagnosi erronea. Secondo: l’intelligencija cattolica con radici nel dopoconcilio e nella Democrazia Cristiana è largamente assorbita dalla costellazione delle sinistre laiche radicali, con differenziati destini di cultura di opposizione. Terzo: la gerarchia e i cattolici che interpretano la Chiesa nello spazio pubblico devono ridefinire canali e codici di una comunicazione politica autorevole con l’universo popolo cristiano. E con una classe di governo “cattolica” ma non di “azione cattolica”» (Pietro De Marco, Sui cattolici «scomparsi dalla politica», 11-9-2008).

Grosso modo, il «Popolo della Libertà»

è nazionale (anche quando è «leghista», per chi vuole e sa capire) e cristiano, sebbene di «cristianità debole»;

non è particolarmente sensibile alla mistica risorgimentale e neppure a quella resistenziale, perché dagli storici risultati di questi due eventi è stato sempre – o si è – escluso;

ha una nozione spontanea dell’assoluto e perciò relativizza o almeno non mitizza più di tanto le istituzioni, in quanto opera d’uomo;

certamente non è affetto da istituzionalismo, cioè da quell’atteggiamento paludato e ipocrita che pretende ad esse ossequio anche quando non lo meritano (con particolare riferimento alla corruzione dei politici e a leggi e sentenze lontane dal sano buon senso comune), e quando dietro il paravento della loro «neutralità» le istituzioni vengono brandite contro chi è considerato fuori del «patto e della legalità repubblicane»;

non è istituzionalista anche perché non è che le istituzioni lo abbiano mai trattato troppo bene, anzi spesso il Palazzo è lontano, quando non lo avverte addirittura ostile e certo come un peso, soprattutto se non lo difende dalla criminalità e si presenta con il volto ottuso di certa burocrazia e del fisco persecutore;

diffida di banche e alta finanza.

Al soggetto politico che lo ha riconosciuto e se n’è assunto la paternità, chiede appunto di alleggerire il peso istituzionale, di perseguire con semplicità e secondo natura e ragione il bene comune, di privilegiare l’economia reale e soprattutto quella piccola, di difenderlo senza buonismi da ogni tipo di minaccia alla sua sicurezza e di lasciarlo vivere in pace, non vessandolo con una serie di comandi e pretese che nulla hanno a che fare con la vita buona in comune. È un popolo che nonostante tutte le sue incoerenze e debolezze, fondamentalmente non è disposto a rinunciare a Dio, famiglia e proprietà, ed ha un senso innato di rispetto per la vita.

Da questo nazionapolpulismo cristiano, forse «cristiano» tra virgolette, il PDL non può prescindere, pena il venir meno della sua stessa ragion d’essere e quindi la sua sostituzione da parte di altro soggetto politico. È difficile indovinare quale?

6.3. Le Elezioni europee del 2009 e le Regionali del 2010: l’Apocalisse politica per la Chiesa in Italia, la Speranza di sconfitta frustrata per gli aspiranti Saint Just.

Nei primi suoi due anni, il governo incontra due grossi scogli elettorali nazionali. Di solito in tali elezioni si sconta un’insoddisfazione diffusa nell’elettorato, che si attende sempre dal cambio di governo l’immediata soluzione dei suoi piccoli grandi problemi. Se poi esse coincidono con una gravissima crisi finanziaria, allora è facile prevedere un esito almeno difficile per governo e maggioranza. Ed invece, caso unico in Europa – e considerato quanto già accaduto e accade negli USA, ben prima delle elezioni di «medio termine», nell’intero Occidente –, le forze di maggioranza e governo, nonché punite sono premiate dagli elettori. Inutile qui dilungarsi sui perché. Quel che conta di più è rilevarne i tre principali effetti politici.

In primo luogo, si conferma una crisi della sinistra che appare allo sbando, o per meglio dire comincia ad avere un potere meglio proporzionato all’effettivo consenso di cui gode nel Paese, e quindi fortemente ridimensionato. Di fatto – come fu detto già sedici anni fa dall’allora segretario dei «Movimenti riuniti» corrente di sinistra della magistratura associata, Vito D’Ambrosio: «Il CSM rappresenta l’ultima trincea della sinistra in Italia» (la Repubblica, 5 luglio 1994) – l’ultima sua vera ridotta, oltre la satira televisiva e una certa grande stampa, rimane il potere (rectius, l’ordine) giudiziario.

In secondo luogo, per la Chiesa in Italia si completa l’apocalisse – intesa in senso etimologico e non escatologico – circa la politica italiana. Se ancora qualcuno voleva chiudere gli occhi – e non mancherà chi continuerà a farlo, perché ideologicamente incorreggibile – ora il disvelamento è completo. Sui cosiddetti «principi non negoziabili» – vita famiglia, educazione –, che sono il criterio assolutamente prioritario di ogni valutazione politica e non solo per i credenti, trattandosi di materia di diritto naturale e non di rivelazione, la sinistra, anche «cattolica», non solo non è affidabile, ma è francamente ostile. La candidatura alla presidenza del Lazio, cioè a Roma, del simbolo stesso dell’anti-natura e quindi dell’anti-cristianesimo in politica ha dissolto ogni possibile dubbio, se pure questo fosse stato possibile. E persino una candidata tendenzialmente femminista e sindacalista – quanto di più indigesto Fini poteva pretendere per il «Popolo della Libertà», che è maggioritariamente «liberista» in economia e conservatore sui principi della vita sociale – se ne giova, vincendo la partita alla guida della squadra primavera, non essendo stata ammessa quella titolare. Un autentico miracolo italiano, una continuazione della «lezione italiana» anticomunista e anti-radicale, cioè anti-antitaliani. E la stessa cosa è accaduta in Piemonte, dove fra l’altro si è chiarito anche l’equivoco UDC, che ha sostenuto – andando anch’essa incontro ad una sonora «lezione» – la radicale e dichiaratamente anti-cristiana, presidente uscente Bresso, colei che tra le tante nefandezze aveva dichiarato la disponibilità a far procedere nella sua regione all’eutanasia di Eluana Englaro, e che aveva favorito le prime sperimentazioni del pesticida umano, la kill pill, la famigerata RU 486. Ed in Piemonte il centro-destra e il «Popolo della Libertà» hanno vinto con il pieno concorso e coinvolgimento delle organizzazioni pro life, con le quali il candidato leghista ha concluso un vero e proprio «patto per la vita».

Infine, il risultato per molti insperato – ma proprio nel senso che non speravano che fosse conseguito, anche grazie al loro lavorìo ai fianchi del governo – alle regionali, ha tolto argomenti, ma non trattenuto, gli aspiranti Saint Just che volevano decapitare il sovrano, come confessa il finiano pentito – alla stessa maniera in cui si pente chi sa di essere ormai avviato all’ergastolo – Amedeo Laboccetta, che parla espressamente di volontà di distruggere (cfr. il velino.it del 30 aprile 2010).

7. Al termine di questo itinerario: la Ribellione di Fini. È una questione di Democrazia e di Dibattito interno, o una Lotta personale giunta all’Esa-sperazione, e quindi alla Perdita di Controllo? Una Ribellione Ideologica o l’Ideologia per la Ribellione? Senza un perché razionale, ma con lo Svuotamento del concetto di Destra: da «Dio-Patria-Famiglia» a «Laicità-Co-stituzione-Convivenze-Multiculturalismo».

Credo che a questo punto materia per rispondere alla domanda iniziale ce ne sia, forse fin troppa, sebbene molti dati manchino e tanti non siano stati approfonditi come avrebbero meritato.

Il fatto è noto. Le domande sul perché troverebbero una risposta troppo comoda e riduttiva nel riferimento ai problemi di collocazione e democrazia prima nella coalizione e poi nel PDL. Fini ha sempre ottenuto da Berlusconi tutto quello che chiedeva, tranne che sostituirlo. Ma questo non gli è stato negato tanto da Berlusconi, bensì dagl’italiani, anche dai suoi elettori, in definitiva. E probabilmente non è riuscito a sopportarlo oltre.

Per la sua ribellione aperta e provocatoria, si è affidato a figure di terza o quarta fila e a un panorama ideologico del quale, chi ha avuto dimestichezza, prima ancora che con gli studi, con certi ambienti e certe correnti, riconosce, al di là di ogni evocazione formale e paradossalmente, le ascendenze nel fascismo rivoluzionario e di sinistra – quello che esordisce a Fiume e a p.zza San Sepolcro e conclude a Verona e Salò la sua parabola con parole d’ordine futuriste, stataliste e però anche libertarie, anti-clericali e repubblicane – e nella nouvelle droite (tutto tranne che una destra) anti-occidentale, evoluzionista e neo-modernista, quando non tecnocratica, di Alain de Benoist.

Rischio, lo so, di andare troppo lontano, e di essere anche sommario, ma solo così si può provare a capire. E cioè: è plausibile che siano quelli gli uomini e le donne e quelle le idee che spieghino e motivino la ribellione di Fini? O non sembra piuttosto una scelta per contrasto? E per contrasto pregiudiziale e distruttivo nei confronti di Berlusconi, come dichiara ab intus Laboccetta?

A mio avviso, non si può altrimenti spiegare il neo-progressismo che taluni hanno messo a disposizione di Fini e dei suoi. Sono idee in cui egli magari non riconosce le affinità e le parentele tra fascismo (o certo fascismo) e antifascismo, ma sono proprio quelle che le certificano, tanto che si può dire che il loro conflitto sia stata anche una guerra in famiglia. L’immigrazionismo, cavallo di Troia politicamente corretto dell’anti-Occidentalismo, che è sempre stato una corrente sotterranea dei fascismi e del neo-fascismo; il patriottismo costituzionale, variante della statolatria positivista la cui matrice è chiara; la laicità – declinata solo nel senso di «contro la vita», «contro la famiglia», persino «contro la Chiesa», «per la trasformazione di ogni desiderio in diritto» –, che diventa il nome nobile dell’avversione superomistica al cristianesimo e alla sua tradizione civile, quando non francamente dell’ateismo nietzscheano strutturalmente estraneo al nome stesso della destra; la preferenza per il sistema economico a forte partecipazione statale, contro il libero mercato.

Questa rincorsa a sinistra di Fini, l’isomorfismo mimetico nei suoi confronti, ha quindi qualcosa d’irrazionale. Non solo perché così facendo crede di liberarsi del peso delle sue origini neo-fasciste liberandosi di ogni idea e principio di destra con cui le confonde (ed invece finisce per far propria, oltre le etichette, la sostanza del fascismo rivoluzionario che tanto piaceva anche a Togliatti: «Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919» [dall’appello del Pci ai «fratelli in camicia nera», agosto 1936]). Ma soprattutto perché si appoggia a idee, soggetti e correnti contro i quali ha costruito la sua identità politica e carriera nel MSI-DN, e dai quali è stato sempre osteggiato come esponente della destra borghese e conservatrice.

Certo, si può cambiare idea, ma bisogna spiegare come e perché. E nel cambiamento – che non sia una folgorazione su una qualche via per Damasco – si deve poter riconoscere un processo. Va anche detto, invero, che qualcuno sospetta una iniziazione a più vasti orizzonti politico culturali, ricevuta quando è stato alLOGGIAto nella Commissione per la redazione del Trattato Costituzionale europeo (quello bocciato ogni volta che è stato sottoposto al parere dei popoli), ma i sospetti non sono una prova. Rimane perciò dominante l’impressione che invece sia tutto strumentale, perchè è più il tono che la musica a fare davvero la suonata. E lo spartito è posticcio, visibilmente posticcio: non gli appartiene.

La curvatura nazionalpopulista «cristiana» (concediamo le virgolette) assunta prima da FI e dalla coalizione, e poi in modo più accentuato dal PDL, sembra essere stata determinante. Né pare che sia possibile accorgersi proprio oggi, dopo quindici anni, non solo dell’alleanza con la Lega, ma che essa è decisiva. Del resto, se drena voti al PDL, non è certo perché questo sta troppo a destra, ma verosimilmente, oltre che per un di più di entusiasmo e organizzazione, perché l’elettorato è deluso e preoccupato sia dalle tensioni interne che dai cedimenti immigrazionisti e bioetici (rimando alle considerazioni su uno dei fattori del successo di Cota in Piemonte) ad opera dei «finiti».

Forse allora non siamo al cospetto di una ribellione ideologica e men che meno per ragioni di democrazia interna – davvero l’ultimo argomento che Fini può agitare –, ma di un’ideologia per la ribellione, se non addirittura per distruggere ciò che si è stati costretti a fondare.

Francamente Fini m’interessa relativamente. Molto più m’interessa la destra.

Per molti, «destra-sinistra» è un’alternativa inattuale. Ma finché non ne verrà proposta, in maniera convincente, un’altra che consenta di dividere lo spazio politico in modo concettualmente perspicuo in funzione dei principi basilari dell’ordine sociale, primo fra tutti quello di realtà opposto all’utopia desiderante, credo che valga la pena continuare a parlare di destra e sinistra. Purché non diventino puri termini topografici, che non definiscono più nulla, meri contenitori la cui etichetta copra qualsiasi contenuto, «a destra» assorba «di destra» e la confusione regni sovrana sotto il cielo, sicché il relativismo – il cui rifiuto dovrebbe essere uno dei caratteri dominanti della destra reale – sarebbe veicolato dallo stesso modo d’intenderla.

Il pericolo maggiore è proprio questo, che con destra invece che «Dio-Patria-Famiglia», o «Tradizione-Famiglia-Proprietà» (ovviamente aggiornati tanto quanto devono essere aggiornati), che la definiscono in sintesi e in modo fortemente simbolico, si possa dire qualunque cosa. Anche finianamente «Laicità-Costituzione-Convi-venze-Multiculturalismo», cambiando così il bimbo nella culla, trasferendo idee di sinistra presso chi, perché distratto dall’etichetta o perché ad essa affezionato, potrebbe finire col recepirle, venendo così trasbordato dal lato opposto senza saperlo e continuando a dirsi «di destra».

Naturalmente, tutto quanto precede – che meriterebbe di essere meglio approfondito, articolato e documentato (ma anche dove non vengono esplicitati, fonti e documenti non mancano) – non significa né vuol significare che il PDL sia il migliore dei «popoli» possibile e che tutto funzioni alla perfezione. Anzi. E un altro dei danni causati dalla scomposta e inspiegabile in termini razionali e politici ribellione di Fini è che, in questo momento, chiunque voglia provare a far del bene al PDL, riflettendo sui suoi problemi e suggerendo doverosi e non pochi miglioramenti, rischia di essere tacitato con l’accusa di «finiano», così blindandosi una situazione ed una dirigenza nazionale e soprattutto periferica che invece non meriterebbero di essere blindate.

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1 commento

  • Darix ha detto:

    Ma come si fa a prendere ad esempio le parole di uno che lavorava per i servizi americani come Ferrara? Forse non avete capito perché oggi il centrodestra dialoga con l’ Europa. O fai il vassallo come il PD o cerchi di portare a casa la pelle. Perché questa Europa, voluta da Giovanni paoli II da Andreotti, da Koll e dagli americani, e’ piu’ potente di qualsiasi cosa! Fate troppo i saputelli. Quattro brave persone come voi non possono riportare la regalità sociale di Cristo con qualche lezioncina.