Gaza, la Distruzione di Khan Younis, l’Occupazione in Cisgiordania. Nathan Thrall, Avvenire, l’Indipendente.

13 Aprile 2024 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione due articoli legati alla tragedia che si consumando in Medio Oriente sotto i nostri occhi. Il primo è di Avvenire, che ringraziamo per la cortesia

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Medio Oriente. «Non agendo contro l’occupazione Israele fa un regalo ad Hamas»


Lucia Capuzzi, inviata a Gerusalemme
Parla lo scrittore Nathan Thrall statunitense di origine ebraica: il dibattito sul 7 ottobre si è concentrato sui sistemi di sicurezza carenti e non sul conflitto irrisolto con i palestinesi
Manifestanti israeliani chiedono la liberazione degli ostaggi

Manifestanti israeliani chiedono la liberazione degli ostaggi – Reuters

«Chiamiamo certi eventi disgrazie quando sono l’inevitabile conseguenza dei nostri progetti, e altri eventi li chiamiamo necessità semplicemente perché non vogliamo cambiare idea». Svelare quei progetti e le idee ostinate di cui si nutrono è il compito della parola. Una parola che rifiuta di essere complice. A trovarla e a scriverla Nathan Thrall che ha dedicato gli ultimi 18 anni come giornalista e come scrittore. Da quando si è trasferito dalla California – dove è nato da una famiglia ebrea – a Gerusalemme e ha cominciato a toccare con mano l’impatto umano dell’interminabile guerra mediorientale. Al conflitto ha dedicato approfondite inchieste e il prestigioso saggio “The only language the understand” (l’unica lingua che capiscono) sulla necessità da parte della comunità internazionale di premere su Israele per una soluzione politica della questione palestinese. «Ho cercato, con una serie di ragionamenti razionali, di convincere i decisori pubblici a prendere posizione. Molti di loro l’hanno letto e hanno concordato con me. Mi hanno, però, detto di avere le mani legate perché si trattava di tesi impopolari, impossibili da sostenere», racconta l’autore nell’appartamento di Musrara, quartiere-spartiacque tra la Gerusalemme araba e quella ebrea. «Ho capito allora che l’unico modo per promuovere un cambiamento era rendere consapevole l’opinione pubblica. Per questo, ho scelto di parlare un altro linguaggio», aggiunge. È nato, così, «Un giorno nella vita di Abed Salama», uscito in Israele e negli Usa pochi giorni prima del 7 ottobre e diventato un caso letterario, tanto da essere incluso dal New York Times e dal Financial Times nella classifica dei migliori libri del 2023. In Italia è stato appena pubblicato da Neri Pozza. In bilico tra giornalismo narrativo e letteratura, attraverso il racconto dell’odissea di un padre palestinese per recuperare il corpo del figlio di 5 anni, morto in un incidente alla periferia di Gerusalemme, catapulta il lettore nell’assurdità quotidiana dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Tema scottante che Thrall affronta con una sensibilità libera da ideologie.
Che cosa l’opinione pubblica non sa o non vuole vedere dell’occupazione?
Il fatto che non è qualcosa di separato dallo Stato di Israele. Non solo quest’ultimo si manifesta nei 700mila suoi cittadini – uno su dieci – che si sono stabiliti nei Territori, ma anche attraverso i servizi – dalla scuola alla sanità – garantiti a questiultimi. Nell’unica entità sovrana attualmente esistente tra il Giordano e il mare – Israele –, ebrei e palestinesi vivono fianco a fianco ma secondo diverse leggi. Ai primi sono garantiti pieni diritti. I secondi sono suddivisi in una molteplicità di categorie a cui sono associate quote di diritti via via minori. Tutte, comunque, hanno meno diritti degli ebrei.
Gli accordi di Oslo avevano trovato una soluzione, per quanto imperfetta, trent’anni fa. Perché non hanno funzionato?
I palestinesi non avevano il potere di implementarli. E gli israeliani non avevano interesse a farlo. I successivi governi di Tel Aviv hanno agito secondo una logica meramente razionale. Tra consentire la creazione di uno Stato palestinese, con tutti i limiti, o mantenere lo status quo senza dover pagare alcun costo per questo, hanno trovato più conveniente la seconda opzione. Il 7 ottobre ha dimostrato che, in realtà, il costo c’è ed è terribilmente salato.
Questa tragedia potrebbe rappresentare un punto di svolta?
Purtroppo il dibattito sul 7 ottobre si è concentrato sugli errori nei sistemi di sicurezza, trascurando il punto centrale: il conflitto irrisolto con i palestinesi. L’unica speranza è una spinta esterna.
Di che tipo?
La comunità internazionale dovrebbe far sì che per Israele sia più costoso mantenere lo status quo piuttosto che risolvere il conflitto.
Come?
Prevedendo delle conseguenze per Israele. Ci sono dei meccanismi di pressione, sanzioni di minore o maggiore gravità, che potrebbero essere efficaci e eviterebbero ulteriori spargimenti di sangue. Non facendo niente il mondo sta condannando i due popoli a una violenza senza fine. L’inerzia internazionale è il maggior supporto per Hamas. I giovani palestinesi devono vedere che c’è un’altra strada e produce migliori risultati delle armi. L’unico modo perché accada è che il mondo agisca per restituire loro la libertà e i diritti.

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Il Secondo è un post Instagram de L’Indipendente Online, a cui vanno i nostri ringraziamenti.***

Macerie e morte: è quanto resta di Khan Yunis, la seconda città più importante della Striscia di Gaza, rasa al suolo dall’esercito israeliano. Metà degli edifici è completamente distrutta e non esiste più alcun tipo di infrastruttura. Dopo il ritiro dell’esercito di Tel Aviv avvenuto il 7 aprile scorso, molti residenti della città hanno percorso otto chilometri per cercare di tornare nelle loro case da Rafah, dove si erano rifugiati per sfuggire agli attacchi, ma i più sono stati costretti a tornare indietro perché non hanno trovato più nulla, se non pochi ricordi e gli oggetti che non sono stati razziati. Sono diverse le testimonianze e i video di palestinesi che descrivono la desolazione che regna a Khan Yunis: «puzza di morte» ha detto al media qatariota Al-Jazeera Maha Thaer, madre di quattro figli, mentre tornava nella sua casa devastata, aggiungendo che «Non abbiamo più una città, solo macerie. Non è rimasto assolutamente nulla. Non riuscivo a trattenermi da piangere mentre camminavo per le strade». Dopo mesi di bombardamenti e di combattimenti, i servizi sanitari e di emergenza sono andati completamente distrutti e i corpi delle vittime dei bombardamenti israeliani sono rimasti per mesi sotto le macerie. Tutte le strade sono state distrutte dai bulldozer e alcuni residenti hanno detto che non riuscivano a riconoscere le strade dove hanno vissuto tutta la vita.

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2 commenti

  • Balqis ha detto:

    Ho lavorato in Israele e in Libano e, purtroppo, devo dire che la conclusione alla quale sono giunta è che sarebbe necessario un intervento di Brigate Psichiatriche Internazionali. Come si fa a vivere in un clima che è SEMPRE così pesante, in cui si spende denaro per un tram di ultima generazione che poi rimane vuoto per la paura di attentati e quando vai a cena fuori c’è un ragazzino spaventato con un mitra ti controlla la borsa? Potrei fare molti altri esempi di ordinaria follia quotidiana… Gli accordi di Oslo hanno costituito una speranza che andava coltivata, ma così non è stato. Adesso mi sembra tutto molto difficile. Anche sul versante palestinese (è a Betlemme che ho lavorato) le cose non sono migliori, anche se in quel caso la follia assume la forma di una depressione rabbiosa e senza speranza.

  • Giovanni ha detto:

    Ecco un essere umano che ragiona con umanità e soprattutto usando il buon senso. Le Sue parole scacciano l’odio e aprono al vivere insieme rispettandosi a vicenda.

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