L’Eutanasia non è la Soluzione. Cantagalli, Tempi.

9 Marzo 2024 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questa nota editoriale su un libro edito da Cantagalli/Tempi, “L’Eutanasia non è la soluzione”. Buona lettura e condivisione.

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Dignità nel morire

Quando si parla di dignità nel morire, al centro di tutto c’è quel “nel”, che descrive un percorso dalle caratteristiche sempre diverse, irripetibili come irripetibile è ciascun essere umano. E proprio per questo difficile, se non impossibile, da ingabbiare nelle maglie di norme fatte per essere generali ed astratte.
Questo opuscolo tratta proprio del rapporto fra la dignità dell’uomo e la sua morte, e prova a dare delle risposte. Lo fa ponendo domande, anche le più semplici e banali, cercando e proponendo risposte altrettanto semplici, anche se ciascuna di esse si nutre di ben maggiori profondità.

Un’impresa assai ardua in un tempo come quello che stiamo vivendo, dominato dal politicamente corretto del conformi- smo delle risposte.
Ed allora, proviamo a offrirne qualcuna, tanto per cominciare, su questioni, per così dire, fondanti; proviamo a fissare il chio- do al quale appendere il quadro che questo tentativo cerca di comporre.

Il fine vita ha a che fare col diritto.
Qual è allora la funzione del diritto?
Il diritto educa fondamentalmente al senso del limite, una fun- zione necessaria per la vita comune degli uomini. E gli uomini con il diritto, nel continuo ricercare il perimetro del reciproco limite da rispettare, devono previamente riconoscere via via il “bene”, o meglio il “bene comune” da perseguire.
E qual è il limite per eccellenza, e dunque al tempo stesso il “bene” per eccellenza?
La dignità dell’uomo.
In cosa consiste?

Nell’appartenenza alla specie umana: la dignità dell’uomo sta nell’essere uomo. Non ci siamo fatti da soli, non ci possiamo disfare da soli.

La salvaguardia della dignità dell’uomo, per essere piena, non può non avere connotazioni necessariamente rigide e non può dipendere dalle situazioni; anzi, la tutela della dignità si fa ancor più stringente proprio quando le circostanze della vita annebbiano l’umano fino quasi a nasconderlo, quando ci diso- rientano rendendoci deboli. Vi sono situazioni in cui è difficile essere riconosciuti uomini anche da noi stessi, ed è proprio in quei momenti che il diritto interviene, talora anche contro la nostra stessa volontà, per impedire che rinunciamo alla nostra dignità.

È semplice tutelare la dignità quando si è dinanzi ad un uomo nel pieno possesso delle sue forze, libero e vivo; non è altrettanto semplice quando si danno condizioni che sfigurano a tal punto l’uomo da rendere difficile percepirne la dignità. Ed è in quel momento che il diritto (insieme ad altre risorse) deve fare la sua parte tutelando il debole, talora anche da sé stesso. Nessuno dubiterebbe che a nessuno è consentito rinunciare alla propria libertà per consegnarsi alla condizione di schiavo, anche se si trattasse di una scelta libera e consapevole; giac- ché nessuno dubiterebbe che in tal modo si rinuncerebbe alla dignità di uomo.

Questo è il paradigma che ha retto il nostro sistema, anche penale; ed è un paradigma riconosciuto dalla stessa Corte co- stituzionale, quando nelle sue sentenze afferma la necessità di apprestare una cintura protettiva nei confronti di chi, per le condizioni di salute, fisica o psichica, si trovi a essere esposto ad assumere decisioni che non sarebbero veramente libere e consapevoli.

Questo paradigma oggi è entrato in crisi. Crisi propria del “cambio d’epoca” in cui ci troviamo.

In modo surrettizio, subdolo, fascinoso e ripetitivo: come già per altre materie, si strumentalizzano casi pietosi e se ne fa il cavallo di Troia per cambiare il fondamento della dignità. Essa non coincide più con la natura stessa dell’uomo, bensì con la sua capacità di autodeterminarsi. E sempre più il diritto e le leggi da custodi del limite divengono l’opposto: amplificatori di un uomo che non accetta limiti, che tutto pretende di misu- rare e possedere.

Anche grazie a un inedito proselitismo giuridico, l’autodeter- minazione è diventata l’ubi consistam della dignità, apparen- temente elevandola, ma in realtà facendone materia disponi- bile, merce: in definitiva, un enorme e mortifero inganno. Questo cambio di paradigma, infatti, conduce inevitabil- mente alla individuazione di sotto-categorie di uomini, di “untermenschen”, come li definivano i nazisti: tali per nascita oppure per condizioni sopravvenute.

Sono uomini senza dignità perché hanno perso delle qualità. La dignità diventa materia oggettivamente manipolabile, non più indisponibile, ma anzi quantificabile anche economica- mente.

Il diritto non è più limite, ma strumento per la selezione fra chi può essere ritenuto degno e chi invece no.
L’esito, del tutto coerente, è che un diritto a suicidarsi gene- ra aspettative sociali conseguenti: se hai “completato” la tua vita, non farsi da parte diventa manifestazione di egoismo!

Il diritto non è più l’anticamera del concreto esercizio della so- lidarietà, ma la cornice entro cui si decidono le sorti degli unfit, degli inadatti, decidendo di volta in volta quale debba essere il loro migliore interesse.

Ed il giudice diventa il supremo arbitro.
Si passa dal cosiddetto paternalismo medico al paternalismo giudiziario.
E il medico?

 Già con la legge sulle Dat (Dichiarazioni anticipate di trat- tamento) il rapporto medico-paziente è profondamente cambiato.

Il medico diventa una parte di un rapporto contrattuale, la parte debole, tenuta ad eseguire le disposizioni del paziente; una parte vista con sospetto: o guarisce oppure deve astener- si. La cura come tale scompare.

Il medico è, dunque, in questo frangente storico, chiamato a un compito enorme: quello di restituire la carnalità della concretezza a un dibattito che assume sempre di più i carat- teri dell’ideologia, dell’astrattezza impietosa di un disumano neo-individualismo.

Ed in questo il medico e il giurista si ritrovano ad essere neces- sariamente alleati, impegnati nella battaglia per la vera digni- tà di ogni persona.
Infine, non si può trattare di queste cose senza chiamare in causa la visione antropologica, di cui il diritto non può fare a meno. Per sua natura la “legge” indica sempre un “bene”. Ogni normativa ha scelto e al tempo stesso incoraggia un certo sguardo sull’umano, una precisa concezione antropologica. Spesso i sostenitori dell’indisponibilità del bene-vita sono ac- cusati di insensibilità, quasi di essere dei masochisti (verso sé stessi) e dei sadici (verso gli altri) rispetto al dolore.

Non si tratta affatto di ricercare e di glorificare il dolore, quasi da maniaci della sofferenza.
Non si tratta però neppure di essere algofobici, cioè di essere terrorizzati dal dolore.

Si tratta di prendere atto che il dolore e la sofferenza fanno parte della nostra vita e sono spesso delle luci di emergenza, che ci ricordano la nostra condizione di finitezza e il bisogno di sostegno del e al prossimo, inestirpabile manifestazione di una inesausta tensione a cercare il Vero e persino la salvezza in al- tro da sé (“Altro” che forse può ben scriversi con la maiuscola).

L’antropologia sottostante la promozione dell’eutanasia ap- pare così chiaramente. È quella dell’uomo padrone di sé stes- so, autonomo ed autosufficiente: un uomo che si fa Dio di sé stesso (ed inevitabilmente dell’altro); questa è la grande illu- sione della modernità, che ha generato disperazione.

L’uomo che la modernità ha preteso di forgiare è un uomo ma- lato, perché non vero: oggi ne vediamo chiaramente l’esito. Al di là del nitore delle pareti della clinica dove viene suicidato, il buio, l’abbandono e la solitudine sono la nota dominante. «Nessun uomo è luce a sé stesso!», avvertiva Rosario Livatino. La risposta ai drammi del fine vita è nelle cure palliative, dove l’uomo è accompagnato per alleviargli il dolore; accompagna- to nel morire e non a morire; e in quel percorso spesso incon- tra il senso di un’intera esistenza e si prepara alle cose ultime. La risposta è assistere il più fragile sempre, tutte le 24 ore del giorno, custodendone le relazioni lì dove vive e valorizzando, anche attraverso il diritto, chi si curva su di lui, per riconoscere tutto il valore di un uomo che rimane pienamente tale, soprat- tutto nella tensione del limite.

Un diritto che protegge questo percorso, dunque, non fa solo opera di giustizia, ma in qualche modo anche di misericordia. Ognuno è chiamato a giudicare se ritenga più umano e ragio- nevole ricevere per sé e i propri cari, anche dalle istituzioni pubbliche, cura o abbandono.

Domenico Airoma

Domenico Menorello

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