I Cesari del Mondo, il Deep State, Vogliono Soffocare la Luce. Gian Pietro Caliari.
18 Dicembre 2023
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Giam Pietro Caliari, che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione queste riflessioni sull’Evento più importante della nostra vita cristiana. Buona lettura e condivisione.
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Incontro delle famiglie e dei ragazzi Fides et Ratio
domenica 17 dicembre 2023
Salmo 26 (27) – Luca 2, 1-7 Giovanni 1, 1-5; 9-14
Dominus illuminatio mea et salus mea; quem timebo?
Care Mamme e Cari Papà,
Carissimi amici, socii et comites,
le antiche parole del Salmo 27 (26) hanno aperto questo nostro incontro, mentre il nostro sguardo e i nostri cuori sono già rivolti all’imminente gioia del Santo Natale, che la liturgia di questa terza domenica di Avvento ci invita, con letizia, già a pregustare.
“Gaudéte in Dómino semper: íterum dico, gaudéte. […] Dóminus enim prope est” – come recita l’Introitus di questa domenica – “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto: rallegratevi. il Signore infatti è vicino” (Introitus, Dominica Gaudete).
Nel Salmo 27, al contrario, sembrano agitarsi gli opposti sentimenti dell’autore sacro al cospetto di Dio.
Il Signore è invocato come “luce e salvezza” (v. 1), come “difesa della vita” (Ibidem), come Colui che all’indifeso, contro cui “si accampa un esercito e divampa la battaglia”, “offre un luogo di rifugio nel giorno della sventura” (v. 5).
L’incertezza, la pericolosità, la miseria, la finitezza e la caducità delle vicende umane, evocate dal Salmo, trovano il loro acme quando l’uomo sembra aver perso ogni speranza e si ritrova, solo, a gridare: “Ascolta Signore la mia voce; io grido: abbi pietà di me! Rispondimi!” (v. 7).
Sant’Agostino d’Ippona ha scritto che nei versi di questo Salmo risuonano la voce della nostra miseria e il gemito della nostra sofferenza (cfr. Ennaratio in Psalmos, XXVII, 1); ma la nostra miseria e la nostra sofferenza trovano sollievo in una speranza, che diventa certezza: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi” (v. 13).
In questo Salmo ricorrono tre elementi simbolici di grande intensità spirituale.
Il primo è negativo: e consiste nell’incubo dei nemici (cfr v. 12).
Essi sono tratteggiati come una belva che “brama” la sua preda e poi, in modo più diretto, come “falsi testimoni” che sembrano soffiare dalle loro narici violenza, proprio come fanno le bestie feroci davanti alle loro prede, prima di aggredirle in un assalto finale.
C’è, dunque, nel mondo – anche nel nostro mondo e ai giorni nostri – un male presente e più che mai aggressivo!
Sì, sempre più violento, aggressivo, bramoso d’imporre la sua brutale violenza, per ergersi nel mondo come l’ultima e definitiva ribellione a Dio, sottomettendo al suo smisurato potere gli uomini e la Storia!
Sì, nel mondo c’è ed è sempre all’opera Satana, che è la guida e l’ispiratore di ogni ogni male e di ogni menzogna.
Satana – come afferma Gesù stesso – “è omicida fin dal principio perché non ha perseverato nella verità, perché non c’è verità in lui! Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Giovanni 8, 44).
Sempre, poi, l’atteggiamento di Satana è quello di una bestia inferocita di fronte alla sua preda, come ci ricorda san Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Lettera di Pietro 5, 8).
La seconda immagine, che ci offre questo Salmo – al contrario – illustra in modo chiaro la fiducia serena del credente, nonostante l’abbandono – persino – da parte dei propri genitori: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (v. 10).
Anche nella solitudine e nella perdita degli affetti più cari, colui che crede non è mai solo, perché su di lui si china la bontà infinita di Dio.
C’è lo ricorda la celebre e ardita analogia del profeta Isaia, che pone sulla bocca di Dio stesso sentimenti di compassione e di tenerezza, che superano – finanche – quelli di una madre per il suo stesso figlio: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai!” (Isaia 49,15).
Sì, come amava ripetere spesso Papa Benedetto XVI: “Chi crede, non è mai solo – non lo è nella vita e neanche nella morte” (Omelia d’inizio Pontificato, 24 aprile 2005).
Sì! Con Dio, non si è mai soli!
Infine, l’ultimo e terzo simbolo, più volte evocato dal Salmo: “Cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (vv. 8-9).
È, dunque, il volto di Dio la vera meta della ricerca spirituale di ogni credente.
Nell’Antico Testamento la parola ebraica פָּנִים panim, che significa il volto, ricorre ben 400 volte e 100 di queste sono proprio riferite a Dio e connesse alla supplica del pio ebreo di “vedere il volto di Dio”.
Sempre nell’Antico Testamento, un protagonista – più di tutti e in modo specialissimo – rappresenta il prototipo di colui che è alla ricerca del volto di Dio.
Si tratta di Mosè, a cui Dio rivela il suo stesso nome nell’incontro al Roveto Ardente; che, poi, sceglie per liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto; per comunicargli la Legge dell’Alleanza Divina sul Sinai; e, infine, per condurlo fino alle soglie della Terra promessa ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.
Proprio nel Libro dell’Esodo, che narra di questi eventi, possiamo leggere che fra Dio e Mosè si era stabilita un’intima confidenza.
“L’Eterno parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico”, come leggiamo appunto nel libro dell’Esodo (33, 11).
Quando Mosè, tuttavia, in forza di questa confidenza chiede a Dio: “Mostrami la tua gloria” – vale a dire “mostrami il tuo volto!” – il Signore risponde così risponde a Mosè: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà […] Ma tu non potrai vedere il mio volto […] Tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (Esodo, 33, 18-33).
Per tutto l’Antico Testamento, quel “volto di Dio” – tanto invocato dall’antico popolo della Legge – rimane un הֶסְתֵר פָּנִים hester panim: “un volto nascosto”; tanto da far esclamare al Profeta Isaia: “Vere tu es Deus absconditus”; “Veramente tu sei un Dio nascosto” (Isaia, 45, 15).
Nel linguaggio dell’Antico Testamento, l’espressione “cercare il volto di Dio” è anche sinonimo dell’ingresso nel Tempio di Gerusalemme per celebrare e sperimentare, in comunità, la comunione col Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe.
La ricerca del volto di Dio esprime, dunque, una necessità collettiva e comunitaria, che trova nel culto liturgico la sua espressione più completa e solenne.
L’espressione “cercare il volto di Dio” comprende, altresì, anche l’esigenza mistica dell’intimità divina, mediante la contemplazione e la preghiera individuale.
Per Mosè e per tutti i Profeti d’Israele, tuttavia, il volto di Dio rimarrà sempre un הֶסְתֵר פָּנִים hester panim: “un volto nascosto”; essi, infatti, hanno potuto seguire il Dio degli Eserciti, contemplandone solo le spalle!
Senza la Rivelazione del volto di Dio, l’Antica Legge – sancita sul Sinai – era destinata a rimanere per sempre incompleta e incompiuta.
Solo con l’incarnazione di Dio in Cristo Gesù, infatti, Rivelatore e Rivelazione vengono a coincidere, nel volto stesso di Gesù il Signore.
Per questo alla richiesta dell’Apostolo Filippo: “Signore mostraci il Padre e ci basta”; Gesù risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?” (Giovanni 14, 9-10).
Solo Cristo, dunque, ha rivelato a noi, in una forma accessibile e definitiva, il volto del Dio dei viventi e ha promesso che nell’incontro definitivo dell’eternità – come ci ricordano san Giovanni e san Paolo – “noi lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3, 2); “allora lo vedremo a faccia a faccia” (1 Corinti 13, 12).
Commentando il Salmo 27, il grande scrittore cristiano del terzo secolo Origene, così annotava: “Se un uomo cercherà il volto del Signore, vedrà la gloria del Signore in modo svelato e, divenuto uguale agli angeli, vedrà sempre il volto del Padre che è nei cieli” (PG 12, 1281).
E sant’Agostino, nel suo commento a questo stesso Salmo, così continua la preghiera del salmista: “Non ho cercato da te qualche premio che sia all’infuori di te, ma il tuo volto. Il tuo volto, Signore, ricercherò. Con perseveranza insisterò in questa ricerca; non cercherò infatti qualcosa di poco conto, ma il tuo volto, o Signore, per amarti gratuitamente, dato che non trovo niente di più prezioso […] Non ti allontanare adirato dal tuo servo, affinché cercando te, non mi imbatta in qualcos’altro. Quale pena può esser più grave di questa per chi ama e cerca la verità del tuo volto?” (Ennaratio in Psalmos XXVII,1, 8-9).
Carissimi amici,
“Puer natus est nobis, et filius datus est nobis”, così magnificamente canterà l’Introito della Santa Messa del giorno di Natale: “Un bambino è nato per noi, e a noi è stato dato un figlio!” (Introitus, Missa in Die).
Non siamo di fronte a un semplice fatto!
Siamo al cospetto di un Evento!
Siamo al cospetto di quell’Evento, che per sempre indica una nuova rotta e un nuovo orizzonte all’Umanità e alla Storia!
Di più, siamo al cospetto dell’Evento che è per noi e dell’Evento che è stato dato a noi!
Noi tutti, come cristiani siamo, infatti, figli e fratelli del Verbo fatto carne! Il cristianesimo – scriveva San Bernardo di Chiaravalle – “è sì la religione della Parola di Dio, non però di una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente” (Homilia super missus est, IV, 11).
Dagli Evangelisti Luca e Giovanni abbiamo, poi, appena ascoltato la narrazione di quell’Evento in cui la Parola di Dio, da scritta e muta, è diventata incarnata e vivente nel Verbo Eterno di Dio, che nasce a Betlemme.
Apparentemente questi due brani del Vangelo sembrano assai distanti, per contenuto e linguaggio.
Il testo di San Luca, a prima vista, sembra semplicemente descrivere quella scena, che è raffigurata in questi giorni dai Presepi nelle nostre case e nelle nostre chiese, e appare totalmente diverso, e persino estraneo, alla speculazione filosofica e teologica che l’Evangelista Giovanni, al capitolo primo del suo Vangelo, ci presenta sul Natale del Signore Gesù.
In realtà, entrambi gli Evangelisti – sia Luca sia Giovanni – fanno lo stesso identico uso del verbo greco Ἐγένετο, non solo per indicare un Accadde che/Avvenne che – vale a dire un Evento – ma anche per indicare due distinti livelli di comprensione.
Il brano del Vangelo di San Luca al capitolo secondo, che descrive la nascita di Gesù a Betlemme, contiene due volte il verbo greco Ἐγένετο, che è l’aoristo secondo medio passivo del verbo γίνομαι, che significa “accadere”, “avvenire” e – dunque nel nostro caso – da tradurre con “accadde che”, “avvenne che”.
Francamente stupisce – e personalmente mi irrita! – che la traduzione italiana abbia ignorato e sic et simpliciter abrogato un verbo che ricorre sia al primo sia al sesto versetto del capitolo secondo del Vangelo di san Luca.
Una traduzione più fedele, infatti, renderebbe così il testo che abbiamo ascoltato:
“Accadde che/Avvenne che In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra” (Luca 2, 1).
“Ora, Accadde che/Avvenne che mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito” (Luca 2, 6).
L’uso ripetuto due volte del verbo Ἐγένετο – Accadde che/Avvenne che – ha il chiaro scopo per l’Evangelista Luca di indicare non solo due distinte sezioni del racconto: da una parte, l’evento del censimento imperiale; dall’altra parte, l’Evento della nascita del Messia nella cittadina di Betlemme.
La ripetizione del verbo Ἐγένετο ha, tuttavia e principalmente, lo scopo di indicare due distinti piani di lettura teologica.
Il primo piano riguarda la volontà e la semplice storia degli uomini: Accadde che/Avvenne che, appunto, il censimento di tutta la terra determinato dalla volontà di potere e dominio di un Cesare Augusto di questo nostro mondo.
Il secondo ha, invece, a che vedere con un ben superiore livello dell’evento. Riguarda la volontà stessa di Dio e il suo manifestarsi nella Storia: Accadde che/Avvenne che “si compirono i giorni del parto e Maria diede alla luce il suo figlio primogenito”.
L’evento del censimento imperiale è meramente fattuale e incidentale al compiersi di un’antica e oscura profezia: “E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele” (Michea 5, 1); e dunque al viaggio che Maria e Giuseppe compirono da Nazareth a Betlemme, a causa di quell’evento voluto dal potere degli uomini.
L’Evento dell’Incarnazione del Verbo di Dio, proprio a Betlemme, e il suo essere “deposto in una mangiatoia” è, invece, essenziale e sostanziale al manifestarsi pienamente non solo “della bontà di Dio nella terra dei viventi” (Salmo 27, 13), ma del volto stesso di Dio, che l’Antico Israele aveva lungamente invocato: “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto. Il tuo volto, Signore, io cerco” (Ibidem, 8).
Sì! A בֵּיִת לֶחֶם Beit Lehem, nella Casa del pane – come si chiama in ebraico Betlemme – i pastori accorsi e i Magi dall’Oriente, contemplano deposto in una mangiatoia il vero volto del Dio Vivente! “Io sono il pane disceso dal cielo” (Giovanni 6, 41). “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete” (Giovanni 6, 35).
Sì! A بَيْتِ لَحْمٍ Bayt Laḥm, nella Casa della carne – come chiamano oggi gli arabi Betlemme – da quel primo Natale e per sempre i popoli e la Storia potranno vedere deposto in una mangiatoia il vero volto del Dio Vivente: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui (Giovanni 6, 54-56).
Sì! Nella povera mangiatoia di Betlemme è deposto in Carne, Sangue, Anima e Divinità quel volto che ora non è più un הֶסְתֵר פָּנִים Hester panim, un volto nascosto, ma un volto su cui risplende e rifulge la conoscenza della stessa gloria di Dio (cfr. 2 Corinti 4, 6)
Similmente all’Evangelista Luca, nel testo originale greco del Vangelo di San Giovanni, che abbiamo ascoltato, al terzo versetto leggiamo: Ἐν ἀρχῇ […] πάντα δι’ αὐτοῦ ἐγένετο, καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν ὃ γέγονεν – che potremmo tradurre letteralmente – “In principio […] tutte le cose sono accadute per mezzo di lui, e senza di lui niente è accaduto di ciò che ha avuto luogo” (Giovanni 1, 2-3).
Qui l’Evangelista si riferisce direttamente alla Creazione del mondo, la quale è accaduta/è avvenuta grazie al λόγος/al Verbo che “era presso Dio ed era Dio” (Giovanni 1, 1).
Poi, di nuovo, San Giovanni utilizza il verbo Ἐγένετο in riferimento al manifestarsi del λόγος/del Verbo nella notte di Natale a Betlemme. Leggiamo, infatti, al versetto 14: Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν.
Nella traduzione italiana, che abbiamo ascoltato, è reso con: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Potremmo – certamente con stretta fedeltà all’originale greco – meglio tradurre: “E il Logos accadde/avvenne come carne e fissò il suo tabernacolo/la sua tenda fra noi”.
Qui l’Evangelista ci indica un passaggio a un livello di superiore comprensione: da quello della Creazione, che pure solo il λόγος/il Verbo di Dio aveva reso possibile, a quella della “nuova Creazione”, dove nuovamente il λόγος/il Verbo di Dio “accade come carne”; per restaurare e ri-creare la primitiva Creazione deturpata dall’opera e dalla menzogna di Satana, “il padre della menzogna”.
Nel linguaggio biblico ebraico la parola “carne” indica l’uomo nella sua integralità, non solo nella sua fisicità, ma anche sotto l’aspetto della sua temporalità e caducità, della sua povertà e contingenza.
Nel λόγος/nel Verbo di Dio che “accade come carne”, nell’Incarnazione, Dio stesso ha assunto la condizione umana per sanarla da tutto ciò che la separa da Lui
Sì, nel λόγος/nel Verbo di Dio che “accade come carne”, nell’Incarnazione, Dio stesso ha voluto togliere dagli occhi degli uomini quella benda che nascondeva loro il volto di Dio e – come abbiamo letto nel Salmo – gli impediva “di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi” (Salmo 27, v. 13).
Ecco, allora, il significato ultimo sia della narrazione di San Luca sia della riflessione teologica di San Giovanni, che San Ireneo sintetizza così: “Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, si è fatto Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, l’uomo diventasse figlio di Dio” (Adversus haereses, III, 19, 1).
E, così, pure commenta una delle bellissime antifone che accompagnano nei giorni del Santo Natale la preghiera della Chiesa: “O admirabile commercium! Creator generis humani, animatum corpus sumens, de Virgine nasci dignatus est; et procedens homo sine semine, largitus est nobis suam deitatem” – “O meraviglioso scambio! Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una Vergine; fatto uomo senza opera d’uomo, ci dona la sua divinità” (Solennità di Maria SS. Madre di Dio, Antifona ai I e II Vespri).
Sì, veramente nel Natale, siamo certi “di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi” (Salmo 27, 13)!
Sì, veramente nel Natale del Signore, Dio stesso ha risposto in modo certo e definitivo al grido dell’uomo, che cercava il suo volto: “Il tuo volto, Signore io cerco. Non nascondermi il tuo volto!” (Ibidem, 8-9).
C’è, poi nei due testi evangelici di san Luca e san Giovanni – che abbiamo ascoltato – un ulteriore elemento comune.
In Luca leggiamo che Maria dopo il parto: “lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Luca 2, 7).
In Giovanni, similmente, troviamo che “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Giovanni 1, 4-5); e ancora: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Ibidem, 11).
Sì, cari amici, sia per san Luca sia per san Giovanni sembra proprio che fra gli uomini e nella Storia non ci sia posto per la “bontà del Signore” nella terra dei viventi!
Oggi, come allora, i Cesari di questo mondo e di questo tempo e la tenebrosa malvagità dell’uomo vorrebbero ancora una volta spegnere la luce, che splende nelle tenebre, e respingere – ancora una volta – Colui che viene fra suoi.
Carissimi amici,
viviamo alla fine di un mondo, alla fine di un tempo e alla fine di una storia dove la Modernità, inaugurata dal cosiddetto Secolo dei Lumi, vive la sua lenta ma inesorabile agonia; e in questo agitarsi mortale è scossa da un delirium tremens ormai incontenibile.
Questa cosiddetta Modernità vorrebbe infliggere al mondo, alla Storia, a noi e, soprattutto, alle future generazioni il contagio mortale delle sue pustole incancrenite e nauseabonde.
Sia ai vertici delle nostre società civili sia – ahimè! – in certi vertici della Chiesa è, ormai, manifesto il parossistico desiderio e la satanica volontà di bandire il sacro ed eliminare il divino, ritenendo sia il primo sia il secondo inutili eredità del passato oppure fastidiosi indietrismi, che ostacolano la corsa dell’umanità verso il Sol dell’Avvenire, ma che – in realtà – è una corsa verso il baratro!
Sì, per loro, Dio e la sua Verità devono essere esiliati dal nostro mondo, dalla nostra Storia e dal nostro futuro!
Si vuole cacciare Dio dal cielo e dalla terra, perché – come grida Ivan ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij – “Se Dio non c’è, tutto è permesso!”
Sì, senza Dio, tutto è permesso! Sì, tutto è permesso, come sognano nei loro incubi immondi le élite globaliste, i Padroni del Caos, che governano a New York, alla City di Londra, a Bruxelles e a Davos.
Il Deep State, lo Stato profondo non è un’invenzione dei cosiddetti complottisti; al contrario, un vero e proprio fenomeno politico degli ultimi quarant’anni.
Si tratta di un gruppo d’interesse privati, ormai strettamente connessi ai poteri politici e persino dominanti su questi, che oltre a perseguire scopi di arricchimento personali, si mobilita per un cambiamento epocale o come direbbe Aldous Huxley, per imporre un “mondo nuovo”, “The New Brave World”.
Fra i poteri legali e questi interessi privati, il legame è costituito da un cultura rivoluzionaria tesa a riorganizzare la vita globale in senso post-naturale, post-veritativo e, soprattutto, post-religioso e post-cristiano.
Ciò che unisce i protagonisti del Deep State è il rifiuto dell’ordine naturale e creaturale, per la creazione di un ordine artificiale, che elimini anche definitivamente l’ordine soprannaturale.
La cultura che domina e aggrega i protagonisti del Deep State non è solo pienamente politica, ma anche anti-religiosa e, specificatamente, anti-cristiana!
Ed essi, ormai, non fanno neppure più mistero dei loro diabolici piani per quello che loro vorrebbero come il futuro del mondo, del tempo e della storia.
In questi ultimi anni l’ideologo delle élite e Il loro guru di riferimento, è diventato lo scrittore israeliano Yuval Noah Harari – autore del volume Homo-Deus, Una breve storia del futuro.
Scrive Harari, a chiare lettere: “Nel XXI secolo, in un mondo ormai libero dalle epidemie, economicamente prospero e in pace, coltiviamo con strumenti sempre più potenti l’ambizione antica di elevarci al rango di divinità, di trasformare Homo sapiens in Homo Deus” (Homo Deus. A Brief History of Tomorrow, Londra, 2017, p.17).
Il loro sogno è l’imposizione di una nuova religione universale, dalla quale Dio e la sua Verità sono espunti, per essere rimpiazzati dall’assolutismo tecnologico.
Scrive Harari: “Il luogo più interessante al mondo da una prospettiva religiosa è la Silicon Valley. È lì che i guru dell’hi-tech stanno distillando, per noi, nuovi arditi culti che hanno poco a che vedere con Dio e molto a che fare con la tecnologia” (Ibidem, p. 22).
“Questa nuova religione tecnologica promette tutte le antiche ricompense – felicità, pace, prosperità e persino vita eterna – ma qui sulla terra e con l’aiuto della tecnologia, piuttosto che dopo la morte con l’aiuto di creature celesti. Le nuove tecnologie uccidono i vecchi dei e ne fanno nascere di nuovi” (Ibidem, 24).
In questo incubo distopico e dispotico, l’uomo transumano, privato di spirito e d’anima, è ridotto in schiavitù: sia la sua libertà sia il suo libero arbitrio, infatti, devono essere annientati.
“In base alle nostre conoscenze scientifiche – continua Harari – determinismo e casualità si sono spartiti tutta la torta, senza lasciarne nemmeno una briciola alla libertà. Scopriamo allora che questa parola sacra, libertà, proprio come anima, è un termine vuoto, privo di qualunque significato comprensibile. Il libero arbitrio esiste soltanto nelle favole che ci siamo inventati noi esseri umani” (Ibidem 43).
Il nuovo mondo che sognano i Padroni del Caos, insieme ad Harari e quello in cui: “Alla fine raggiungeremo un punto in cui sarà impossibile disconnettersi da questa rete onnisciente anche solo per un momento. La disconnessione significherà la morte” (Ibidem, 52).
E dove “già oggi molti di noi rinunciano alla propria privacy e alla propria individualità trascorrendo una parte consistente della vita online, registrando ogni azione e diventando isterici se perdono la connessione con la rete anche solo per qualche minuto. Il passaggio dell’autorità dagli umani agli algoritmi si sta verificando tutto intorno a noi, non come il risultato di una qualche fondamentale decisione governativa, ma a causa dell’inarrestabile flusso di scelte personali quotidiane” (Ibidem, 55).
La conclusione a cui Harari giunge però non è molto diversa da quella che il mito greco già ha riservato a tutti i Prometei della Storia e a tutti gli Icari, che vogliono sfidare il sole.
Conclude, infatti, Harari: “Ad ogni modo quando noi umani perderemo la nostra importanza funzionale per la rete, scopriremo che non siamo l’apice della creazione, dopotutto. I parametri che noi stessi abbiamo venerato ci condanneranno alla stessa sorte toccata ai mammut e ai delfini fluviali cinesi, ovvero all’oblio. A uno sguardo retrospettivo, l’umanità si rivelerà essere stata soltanto un’increspatura nel flusso di dati cosmico” (Ibidem, 72).
Sì, l’uomo transumano, che sognano le élite globaliste e il Deep State, denudato da tutti i connotati della sua identità più vera e profonda; inabissatosi nella palude solitaria del suo io; ammagliato e accecato dalle Valchirie della scienza, della tecnologia; illuso e pervertito dai miti del progressismo; alla fine non si eleverà affatto a Homo-Deus, non segnerà la fine né di Dio né della sua eterna Verità, ma – come già successo nella Storia – scatenerà sulla terra l’abominio della desolazione e infliggerà all’umanità infinite pene e sofferenze.
Carissimi amici,
800 anni fa, in prossimità del Santo Natale del 1223, san Francesco d’Assisi si era recato a Greccio in un terreno a lui donato da un nobile, che come scrive Tommaso da Celeno: “essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà di spirito che quella della carne” (Vita seconda, Fonti francescane, Padova, 1988, n. 84, p. 477).
Francesco, scrive sempre il suo primo e contemporaneo biografo: “al di sopra di tutte le altre solennità, celebrava con ineffabile premura il Natale del Bambin Gesù e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato a un seno materno”.
“Baciava con animo avido le membra infantili del Bambinello; e la compassione del Bambino, riversandosi nel suo cuore, gli faceva balbettare parole di dolcezza, alla maniera dei bambini. Questo nome, Gesù Bambino, era per lui dolce come un favo di miele in bocca” (Ibidem, n. 199, p. 711-712).
Per questo Francesco, quella notte di Natale del 1223, aveva fatto allestire davanti all’altare un presepe, allestimento che, forse, era stato suggerito al santo d’Assisi dal suo recente pellegrinaggio in Terra Santa o da una sua visita a Roma al presepe di Santa Maria Maggiore.
All’improvviso – racconta sempre il Celano – Francesco vide giacere immobile nella mangiatoia un piccolo bambino che fu svegliato dal sonno dalla vicinanza del santo d’Assisi.
“Questa visione prodigiosa non discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva resuscitato nel cuore di molti che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso nella memoria di molti” (Ibidem, n. 89, p. 479).
Questa testimonianza del Celano fotografa esattamente come il “più santo degli italiani e il più italiano dei santi”, Francesco d’Assisi, con la sua fede vivissima e il suo sentimento umanissimo, ha conferito alla festa cristiana del Natale una nuova dimensione: la scoperta della Rivelazione di Dio racchiusa proprio in un bambino.
Dio è veramente l’Emmanuel, il Dio con noi, da cui non ci separa alcuna barriera o lontananza.
Nel Bambin Gesù, il disarmato amore di Dio si manifesta nella maniera più chiara: Dio viene nella piccolezza di un bimbo inerme e indifeso perché non vuole conquistarci dall’esterno.
Nel Bambin Gesù, Dio vuole trasformarci dall’interno!
Se c’è qualcosa, infatti, che può vincere l’uomo; che può vincere la sua alterigia; che può vincere la sua superbia; che può vincere la sua cupidigia; che può vincere la sua violenza; e che può vincere la sua bramosia di potere e dominio – in una parola – che può vincere il suo peccato, questa è propio l’indifeso e inerme amore di un bimbo.
E Dio l’ha assunta per vincerci e così condurci a noi stessi e Lui!
“Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18,3).
“Chi non ha capito e si ostina a non capire il mistero del Natale, non ha capito la cosa decisiva dell’esistenza cristiana. Chi non l’ha accolto, non può entrare nel regno dei cieli! Questo è quello che Francesco ha di nuovo voluto ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutti i tempi successivi” (J. Ratzinger, Der Gott Jesu Christi, Munchen, 1976, p. 61).
Care Mamme e cari Papà,
carissimi amici, socii et comites,
Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν (Giovanni 1, 14) Il λόγος, il Verbo, il senso stesso dell’Esistenza e della Storia si è fatto carne, perché noi vedessimo il vero volto di Dio!
è accaduto qualcosa di enorme, d’immaginabile, eppure anche di sempre atteso e necessario: Dio è venuto fra noi e si è unito così indissolubilmente all’uomo, che questo Bimbo che contempliamo nella mangiatoia è realmente Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, eppure rimane vero Uomo.
Il senso eterno del mondo è venuto a noi, così che lo possiamo toccare e contemplare (cfr. 1 Giovanni 1, 1).
Il senso eterno della Vita è venuto a noi e in mezzo a noi perché noi tutti ritrovassimo il senso eterno della Vita, della Vita vera.
Sull’esempio di Francesco d’Assisi, nei prossimi giorni, anche noi soffermiamoci a contemplare il Bambinello, il Puer Aeternus.
Che il suo nome, come per il Poverello d’Assisi, risuoni per noi più dolce del miele.
Possano riecheggiare anche per noi – nei prossimi giorni – le parole che Sant’Ambrogio scrisse quando, ai suoi tempi, la Chiesa Cattolica viveva uno dei suoi momenti più bui, scossa e lacerata dall’eresia ariana, che negava la divinità del Figlio di Dio e del suo Cristo benedetto:
“Volle farsi pargolo, volle farsi bimbo, perché tu possa divenire uomo perfetto; fu avvolto in pochi panni perché tu venissi sciolto dai lacci di morte; giacque nella mangiatoia per collocare te sugli altari; scese in terra per elevare te alle stelle; non trovò posto in quell’albergo perché tu potessi avere il tuo nella patria celeste”.
“Da ricco che era, si fece povero per voi perché per la sua povertà voi diventaste ricchi. Quella povertà è dunque la mia ricchezza, la debolezza del Signore è la mia forza. Volle per sé ristrettezze e per noi tutti l’abbondanza. I pianti di quell’infanzia mi purificano, quelle lacrime lavano i miei peccati”.
“O Signore, io sono più debitore per le tue sofferenze che mi hanno redento, che non per la tua potenza creatrice che mi ha creato. Sarebbe perfino inutile nascere, se non avessimo il vantaggio d’essere da Te redenti” (Sant’Ambrogio, De Isaac et anima, IV, 35).
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Categoria: Generale