Apocalisse. La Potenza di Dio nei Piccoli. Torniamo Bambini. R.S.
10 Novembre 2023
Marco Tosatti
Carissimi StilumCuriali, un amico fedele del nostro sito, che ben conoscete, R.S., offre alla vostra attenzione queste riflessioni sull’Apocalisse. Buona lettura e condivisione.
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Mi è capitato di rivedere un film italiano degli anni sessanta e mi ha molto impressionato la quantità di bambini ovunque, per strada e nella quotidianità dei protagonisti della trama. Erano gli anni del baby boom, ma soprattutto era un’Italia viva, giunta ad essere la quarta o quinta potenza economica del globo, quando ancora c’erano le macerie dei bombardamenti dell’ultima guerra. La vitalità che si percepisce in queste scene non era priva di criticità e di sofferenze, ma sprizzava tutta la gioia e il chiasso che solo i volti e le urla dei bambini sanno avere.
Questa premessa non vuole fare da apripista ad un lamento sull’inverno demografico attuale, che sconta scelte politiche che hanno eliminato qualche milione di connazionali che adesso sarebbero più giovani di me, ma mira ad un approfondimento sul tema spirituale della piccolezza. Per un adulto è un diminuire a sé stessi perché possa crescervi l’Altro, un rimpicciolire al me e al mondo per essere riempito di Grazia.
Nelle ultime settimane Stilum Curiae ha proposto degli articoli sull’Apocalisse di San Giovanni. Il libro, che propone ben sette beatitudini in una prospettiva nuziale, ha peculiarità che lo accomunano ai libri per bambini. E’ infatti un libro “sensoriale” con relativamente poche parole e tante potenti immagini, tra profumi, odori, suoni, tuoni, canti, sapori, lampi, animali, angeli e tanta luce. La luce non toglie l’angoscia, se c’è, ma ne illumina la tenebra che provoca.
Dio non toglie il dramma o la tragedia (la prova è necessaria), ma toglie l’oscurità: si vede chiaramente, invece di brancolare nel buio. La chiaroveggenza non è una stregoneria da indovini, ma uno sguardo capace di interpretare lucidamente la realtà presente, mentre la vivo lì dove sto adesso.
Quando tutto sembra farsi minaccioso Dio dov’è? E’ in mezzo a noi e vigila perché non si spenga la Sua luce. La luce viene da Dio: è Lui. A noi sta di (ri) orientare lo sguardo in quella luce; il resto svanisce e Gesù dice di non aver paura: è la carezza di Dio e le carezze sono più belle delle spiegazioni. Solo i puri di cuore vedono Dio e un bimbo, privo della pretesa di capire tutto, ma incuriosito da ciò che vive, illumina con questa luce il suo cuore semplice e puro.
Il tema della luce divina è comune al magnifico prologo del quarto vangelo: c’è bisogno di restare a bocca aperta! Una Parola (il Verbo, il Logos) fatta carne; per conoscerla e comprenderla è necessario osservarla e praticarla esattamente come fa un bambino nel gioco, imparando non dai teoremi dell’erudizione colta, ma per mimetismo e per immedesimazione, acquisendo la conoscenza sporcandosi le mani e con le croste sulle ginocchia.
Davanti ad Apocalisse (la Rivelazione di Cristo) si deve tornare un po’ bambini: è il solo modo per comprendere qualcosa, perché soltanto i piccoli possono farlo. La fede cristiana non è intellettualistica, ma è luce, vita, carne e sangue: stai e impara. Imitiamo la Madre nel mettere al mondo in noi (per la fecondità di Dio) il Verbo incarnato.
Che cosa si rivela in Apocalisse che ha tanto bisogno della nostra piccolezza? Che il Vittorioso vince con mezzi piccoli: l’agnello, un esercito vestito di lino bianco, una donna incinta vestita di sole, l’arca, il cavaliere vestito da sposo, il tau (l’ultima lettera dell’alfabeto). Ad esempio quando, annunciando il leone di Giuda degno di aprire il rotolo con i suoi sette sigilli, non compare un leone, ma un agnello “come immolato, ma ritto in piedi”. L’agnello prende il libro e i vegliardi suonano spargendo incenso e prostrandosi adoranti. Perciò, quando attendiamo da Dio una risposta ai nostri perché, non attendiamoci il Re Leone, ma ancora quello stesso Agnello che San Giovanni presenta nel vangelo nell’episodio al Giordano subito dopo il prologo. Un agnello la cui lana bianca è sporca del suo sangue pasquale.
Nei grandi numeri di Apocalisse impariamo che a Dio bastano la metà dei 288000 dell’esercito di Davide (1 Cr 27), ennesimo segno di piccolezza presentando i 144000 che hanno lavato le vesti nel sangue dell’agnello, che bagna l’architrave insanguinato della porta (stretta) da cui passare per salvarsi: si è riaperta la porta che era stata chiusa uscendo da Eden. Il segno della piccolezza che salva chi si fa piccolo prima che sapiente. Nel grande combattimento spirituale che riguarda ogni anima, al momento dello scontro con le miriadi di armate corazzate del nemico, con i loro cavalli enormi e fumanti (Ap 20), a fronteggiarle sono i paramenti sacri, le schiere angeliche e il Cristo vestito di lino.
Si vince con… niente. Basta la nostra piccolezza perché è Cristo che vince. Ne è un indizio anche l’iconografia di San Michele e di San Giorgio ritratti con spada e lancia filiformi e fragili, perché la forza è in di Dio e non nell’arma.
Oggi il segno piccolo per eccellenza è l’Eucaristia, che sconcerta i sapienti, ma è compreso dai bambini che con fede accolgono la realtà della transustanziazione. Durante la Santa Messa, vedendo cadere a terra una particola sfuggita nel passaggio dal celebrante alle mani del fedele, la prima cosa che pensa un bambino è: “Gesù, ti sei fatto tanto male?” Converrete che è diverso dal disquisire sull’inopportunità liturgica della comunione sulla mano!
L’Anti-Trinità che regge Babilonia (il drago, la bestia della terra e la bestia del mare) è smaccatamente e proditoriamente anti-vita; odia i bambini ed esercita il suo potere minacciando la donna vestita di sole che ha partorito. La minaccia oggi sono l’aborto, l’eutanasia dei piccoli malati, la pedofilia e tante altre crudeltà contro i piccoli per togliere loro l’innocenza.
I bambini conoscono lo stupore e il desiderio a braccia tese verso chi li rassicura; sono ignari dei calcoli, dei pesi sulla bilancia, degli interessi composti e dei ragionamenti scettici del pragmatico razionalismo utilitarista: non perché non sia bene anche il saper far di calcolo, ma per non farne l’idolo di un sé montato in sella alla propria superba autodeterminazione, che allo stupore della Provvidenza preferisce le garanzie della previdenza. Il dono e il perdono dell’amore sono indigesti a chi ha una mano destra sempre informata dell’agire della sinistra.
Ma per rimanere noi piccoli bisogna accettare di tornare ad essere capaci di stupore e del naturale attaccamento al bene e alla vita, esprimendolo come fosse una lallazione (in latino lallatio è il canterellare), incapace di veicolare significati precisi. Lallazione è proprio il termine utilizzato dal Prof. Sermonti per descrivere quello che Dante voleva dirci nel XXXIII canto del Paradiso, finalmente approdato alla visione di Dio. Il Sommo, inizialmente smarrito in una selva oscura dell’inferno, ora desidera di vedere direttamente Dio nella Sua Luce e San Bernardo gli ottiene la grazia.
Riferisce di tre cerchi autolucenti ardenti di fuoco, “di tre colori e una contenenza”. In uno dei cerchi il poeta vede la sua immagine riflessa: l’uomo in Cristo sta nella Santissima Trinità (dove è già la Madre Santissima). Tre figure discoidali distinte e indistinguibili… sta vedendo l’inimmaginabile e non lo sa descrivere adeguatamente… Dante ammette: “all’alta fantasia qui mancò possa”, ma Dio si mostra come una ruota che si muove “dell’amor che muove il sole e le altre stelle”.
Cito a braccio Sermonti: Dante vede quel poco che gli era dato di vedere; e di quel poco pochissimo ricorda; e di quel pochissimo resta il nonnulla che è capace di dirci unicamente per grazia di Dio, senza proprio merito (perciò una lallazione). Lo dice proprio lui, attribuendosi un linguaggio più smozzicato di quel che userebbe un lattante. Man mano che il pellegrino procede nella beatitudine si fa sempre più piccolo… prossimo alla nascita tocca l’apice, da neonato mistico! Tre visioni eterne, simultanee e successive di “ciò che nell’universo si squaderna”. Come sia possibile Dante non lo sa.
Non viene voglia di fare un bel girotondo nella beata innocenza condivisa con chi teniamo per mano cantando?
Voler capire tutto è una tragica presunzione! Dio opera mirabilmente e la sua azione è maggiore sulle anime che vivono nel poco della loro piccolezza. È un principio fondamentale per la vita soprannaturale, da scolpire nell’anima; un principio vitale per la santificazione: Gesù ne fa un esplicito ringraziamento al Padre: Ti ringrazio che hai nascosto queste cose ai grandi e le hai rivelate ai piccoli (Lc X,21; Mt XI,25). Dio predilige ciò che è piccolo e umile non per dominio, per superiorità o per la distanza tra la sua grandezza e la nostra miseria (poiché ogni grandezza creaturale è trascurabile innanzi a Lui, essendo anche in matematica 1+ infinito = infinito). Dio predilige l’umile e il piccolo per condividere l’Amore che Egli è.
E’ un dato di fatto che la creatura insuperbita possa dimenticarsi del suo Creatore e persino amando (che è prerogativa della creatura umana) si può fare a meno di Dio. Incontrando creature piene di sé Dio non le coarta. Tuttavia meno la creatura rivendica la propria entità e più Egli le si effonde con generosa bontà; più la creatura si attacca alla propria entità e meno Egli può operarvi, per non ledere quel diritto libero di vita che le ha dato.
Se comprendessimo questo mistero ci sforzeremmo di farci più piccoli! Vivremmo in pieno la parola di Gesù: il rinnegare sé stessi (Mc 8,34). Invece ce la mettiamo tutta per ingrandirci, stando davanti a Dio con tale presunzione da gonfiare il più possibile, fino a metterci alla pari con Lui, anzi sopra di Lui, imitando Satana e gli angeli ribelli, per precipitare sotto il peso del peccato di superbia ed orgoglio.
Sono proprio i bambini e la piccolezza spirituale che mancano a questo mondo triste pieno di morte e di facce pensose, preoccupate degli affari, con la paura di morire e senza un senso da saper dare alla loro vita. La Babilonia dove i più imbroglioni imbrogliano gli altri che si lasciano imbrogliare… tanti laureati e diplomati, tutti confidenti negli apparati sociali, i diritti e la scienza dell’umanità che ritiene sciocco credere alla presenza di Dio in un’ostia (la vittima, l’Agnello sacrificale) consacrata.
Questa adultità convince anche chi dice di aver fede, ma la vuole adulta e disincantata; in realtà una fede nel mondo, perché non vede più in là del suo naso vantandosi di credere solo a ciò che vede… nel buio che ha dentro!
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Tag: apocalisse, R.S.
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https://www.calibanoeditore.com/libri/Il_pianto_di_Natale_Giuseppe_Arnaboldi_Riva
Provi a leggere il mio “IL OIANTO DI NATALE” Calibano Editore,
Giuseppe Arnabodi Riva.
Sempre carissimo R.S.,
al sesto paragrafo del suo articolo usa ancora i termini “mimetismo” ed “immedesimazione” per descrivere qualcosa di importante. Termini che per me sono un segnale😊 a non aver più remore in proposito, ma a condividere con lei una riflessione inesaustiva e inadeguata che ritengo tra quelle più essenziali – senza poter nè voler insegnare nulla a nessuno! – e rifattasi vivissima alla mia mente dopo il suo intervento del 5 novembre ore 15.34 (sull’ultimo post del Cannarozzo, in cui diceva di “mimetismo” e “imitazione”).
Perdonerà ancora il mio dilungarmi – che in realtà andrebbe inteso come un voler passar più e miglior tempo, in sua fraterna compagnia – e anche l’essere non proprio a tema con l’articolo (ma forse potrei riservarmi un ultimo commento prima di darmi alla macchia😊). Benchè il tutto, in ultima analisi, si leghi al “tema spirituale della piccolezza” che ha voluto illustrarci con gustosa e sapiente semplicità attraverso il suo bel post.
Accenni su imitazione ed emulazione:
Concetti su cui da tempo rifletto, a partire dagli ultimi due Comandamenti che infatti riguardano proprio la sfera delle concupiscenze, dei desideri e sono in stretta correlazione (il decimo, in particolare) col pesante peccato di “invidia della grazia altrui”, peccato contro lo Spirito Santo, tanto ignorato quanto ben attecchito nei nostri ambiti. Tutti, nessuno escluso.
Per arrivare al dunque, mi avvalgo di spezzoni validi e a me pare molto interessanti, tratti da “Vedo satana cadere come la folgore”, dell’antropotuttologo per nulla ortodosso (anche se dipinto come tale) Renè Girard, e traendo dal Catechismo della Chiesa Cattolica, di san Giovanni Paolo II.
“Un esame attento ci mostra che esiste nella Bibbia […] una concezione originale quanto misconosciuta del desiderio e dei conflitti da esso generati”, ed è a questo punto che René Girard colloca la sua riflessione d’ouverture sul Decalogo, affermando che “il decimo comandamento contrasta […] con quelli che lo precedono, sia per la lunghezza sia per l’argomento. Anziché proibire un’azione, esso proibisce un desiderio:
*Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna che appartenga al tuo prossimo (Esodo 20, 17)*.
Le moderne versioni francesi usano il verbo convoiter […] ‘desiderare ardentemente, bramare’ […] una traduzione che […] mette […] il lettore su una falsa strada, facendo pensare che si tratti di un desiderio fuori del comune, di un desiderio perverso riservato ai peccatori incalliti. Ma il termine ebraico […] significa più semplicemente ‘desiderare’, ed è il medesimo verbo che indica il desiderio di Eva per il frutto proibito, il desiderio del peccato originale.
L’idea che il Decalogo dedichi il suo comandamento finale, il più lungo, alla proibizione di un desiderio marginale, che sarebbe proprio solo di una minoranza, non è affatto verosimile. Ciò di cui il decimo comandamento parla deve essere invece il desiderio di tutti gli uomini, il desiderio in sé […]. Bisogna interrogarsi sulle implicazioni del desiderio definito nel decimo comandamento, il desiderio rivolto ai beni del prossimo.
Visto che quel desiderio è il più comune di tutti, cosa accadrebbe se, anzichè essere proibito, venisse tollerato o addirittura incoraggiato? Il conflitto sarebbe perpetuo all’interno di ciascun gruppo umano, di ciascun sottogruppo, di ciascuna famiglia […].
Pensare che le proibizioni culturali siano inutili […] significa aderire all’individualismo più sfrenato, quello che presuppone l’autonomia totale degli individui, ossia l’autonomia dei loro desideri; significa in altre parole pensare che gli uomini siano per natura inclini a non desiderare i beni del prossimo.
E’ sufficiente osservare due bambini o due adulti che si contendono una qualunque sciocchezza per capire che un simile postulato è falso[…].
Se gli individui sono per natura portati a desiderare ciò che i loro vicini possiedono, o addirittura ciò che questi semplicemente desiderano, allora esiste all’interno dei gruppi umani una fortissima tendenza alla rivalità, una tendenza che, qualora non venisse contrastata, minaccerebbe in permanenza la pace e persino la sopravvivenza di qualunque comunità.
I desideri rivalitari sono ancor più temibili se consideriamo la loro tendenza a rafforzarsi reciprocamente. E’ il principio dell’escalation, del rilancio esponenziale, a dominare questa categoria di conflitti. Si tratta di un fenomeno così risaputo e banale, così contrario all’idea che ci facciamo di noi stessi e così umiliante nelle sue conseguenze, che preferiamo cancellarlo dalla nostra coscienza, e comportarci come se non esistesse, pur sapendo con certezza che esiste. Una simile indifferenza alla realtà è un lusso che le piccole società arcaiche non potevano davvero permettersi […].
Leggendo il decimo comandamento si ha l’impressione di assistere al processo mentale della sua elaborazione.
Allo scopo di impedire agli uomini di entrare in conflitto, il legislatore cerca innanzi tutto di proibire loro gli oggetti che costoro non cessano mai di contendersi, e decide di elencarli, ma si rende subito conto che tali oggetti sono troppo numerosi: impossibile farne un elenco completo. Si interrompe quindi a metà strada, e rinuncia a porre l’accento su oggetti perennemente mutevoli, rivolgendo la sua attenzione verso ciò che, o meglio verso colui che è sempre presente, il vicino, il prossimo, la persona di cui viene chiaramente desiderato tutto ciò che possiede.
Poichè gli oggetti che desideriamo appartengono sempre al prossimo, è evidente che è quest’ultimo a renderli desiderabili…”.
Ecco introdotto il concetto di desiderio mimetico ed è a questo punto che l’autore fa una lunga digressione in proposito, davvero molto utile, in particolare per chi esercita o vive la direzione spirituale, per poi asserire che:
… “l’invidia, la gelosia e l’odio rendono simili le persone che diventano nemiche per causa loro, eppure nel nostro mondo queste passioni rifiutano di pensare a se stesse nei termini delle somiglianze e delle identità che non cessano di generare. Esse hanno orecchi soltanto per l’esaltazione ingannevole delle differenze, la stessa che sempre più imperversa nelle nostre società, non perchè le differenze reali stiano aumentando, ma al contrario perchè stanno scomparendo.
La rivoluzione che il decimo comandamento annuncia e prepara giunge a compimento nei Vangeli. Se Gesù non parla mai in termini di divieti ma costantemente in termini di imitazione e modelli, è perchè sviluppa fino alle ultime conseguenze la lezione del decimo comandamento.”
Giungo al nocciolo: l’emulazione (o, per Girard, il mimetismo) è una adulterazione dell’imitazione!
C’è grandissima differenza tra l’atto di emulare e la retta volontà di imitare.
Emulare è contraffazione. Simulare ci espropria! Le virtù simulate sono ben peggiori dei vizi! Occorre coltivare il senso del pericolo!
Imitare è simbiosi profonda, necessita empatia (“immedesimazione”), abnegazione, sacrificio di sè, altruismo, generosità e, in bella sostanza, verità.
Un aforisma di Samuel Johnson recita:
“Quasi tutte le assurdità del comportamento derivano dall’imitazione di coloro a cui non possiamo assomigliare”; ma in realtà ciò è proprio dell’emulazione, non dell’imitazione.
Un esempio più calzante? Detto banalmente:
Mi ha sempre colpito il miracolo di sant’Antonio della predica ai pesci (bellissimo e denso di significato, il racconto, che andrebbe letto e riletto).
Per emularlo – per mimesi – basterebbe porsi nei pressi di uno specchio d’acqua e dare il via alla rappresentazione, copiando parole, gesti, comportamento del santo, persuasi forse di ottenere lo stesso risultato. Che non otterremo mai! Anzi, ci copriremmo di ridicolo, oltre che di colpa. Non si può, infatti, ingannare lo Spirito Santo.
Ma non potrebbe essere che sant’Antonio – la cui lingua incorrotta è conservata presso la Basilica di Padova – compì il miracolo della predica ai pesci per imitare la santità di san Francesco, suo modello e serafico padre, che, prima di lui, predicò agli uccelli?
Sant’Antonio fu vero discepolo di san Francesco e, ancor più, prediletto di Dio, non per emulazione ma per sincera, verace imitazione.
Potremmo dire che possedeva il suo spirito, come un novello Eliseo ebbe in eredità il mantello di Elia!
Il miracolo della predica ai pesci, allora, è un frutto mirabile dello Spirito e della Grazia e nulla ha a che fare con l’emulazione; per questo andrebbe sovente riflettuto e usato per ispirare la nostra preghiera.
Seguire le orme non è lasciarne di nuove, e lasciare la propria impronta è proprio seguire le orme di Cristo, di chi fa le Sue veci: in Cristo troviamo la nostra personalità e non prendendola a prestito da altri, vanificando la creatività di Dio che di ognuno di noi ha fatto un unicum a Sua immagine e somiglianza!
L’etimologia delle due parole, poi, conferma e rafforza i pensieri già espressi.
Imitare vien dal latino, col significato di prendere a modello. Emulare vien ancora dal latino e significa emulo, rivale, chi gareggia.
Non tornerò a citare Girard ma il suo ragionamento sul desiderio mimetico esprime molto bene la rivalità latente tra soggetti, anche quando questa viene illusoriamente celata.
Fatta, dunque, un briciolo di chiarezza su questi termini che esprimono concetti assolutamente opposti, passo rapidamente all’ambito teologico attraverso il Catechismo della Chiesa Cattolica, in cui si mette in evidenza come “il decimo comandamento riguarda l’intenzione del cuore” ed è riassuntivo, insieme al nono, di tutti i precetti della Legge.
Soprattutto “esige che si bandisca dal cuore umano l’invidia…l’invidia può condurre ai peggiori misfatti. E’ per l’invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo…L’invidia è un vizio capitale. Consiste nella tristezza che si prova davanti ai beni altrui e nel desiderio smodato di appropriarsene, sia pure indebitamente. Quando arriva a volere un grave male per il prossimo, l’invidia diventa un peccato mortale.
Sant’Agostino vedeva nell’invidia ‘il peccato diabolico per eccellenza’. ‘Dall’invidia nascono l’odio, la maldicenza, la calunnia, la gioia causata dalla sventura del prossimo e il dispiacere causato dalla sua fortuna’.
L’invidia rappresenta una delle forme della tristezza e quindi un rifiuto della carità; il battezzato lotterà contro l’invidia mediante la benevolenza. L’invidia spesso è causata dall’orgoglio; il battezzato si impegnerà a vivere nell’umiltà.”
E ancora vi si legge, nella sintesi, che “il distacco dalle ricchezze è indispensabile per entrare nel Regno dei cieli”.
Il distacco da tutte le ricchezze, da tutto ciò che noi consideriamo ricchezza, che per noi è ricchezza…
Le ramificazioni di tale comandamento, pertanto, sono sottili e molteplici. Richiedono un severo confronto in coscienza.
In Girard si riflette sul desiderio e sui suoi effetti; nel Catechismo si approda invece all’origine della volontà del Creatore, che è impedire all’uomo di perdersi, roso dall’invidia e dalla gelosia, dalla rivalità e dalla competizione che impediscono la carità.
L’emulazione ci rende pappagalli e decreta una palese mancanza di accettazione della propria miseria che si fa di tutto per dissimulare rubando al prossimo meriti, idee, virtù, intenzioni, ecc…
Se ne evince che questo tipo di malsane passioni non possono essere banalizzate e marginalizzate o, peggio, taciute. Sono passioni che ci fanno adulti nel peccato e non nella fede!
Non emulazione, non mimesi, non mimetismo, giammai simulazione; ma imitazione di Cristo e delle Sue anime “vicarie”, i Santi: così non si diventa ma si è, bambini! Solo così! Nella comunione di Cristo e dei Santi! Nelle nozze dell’Agnello e nell’amore vicendevole, privo di qualunque malizia e scaltrezza!
Ancora grazie della pazienza e per tutto.
Un ottimo articolo.
Mi permetto di aggiungere come esso sia una denuncia dell’egolatria, da cui i bambini – e gli animali! – sono esenti. Forse bisogna ammettere che, spesso, per non dire sempre, crescere significa corrompersi e salire in trono, da cui prima o poi si viene trascinati giù.
Inoltre, a mio parere, può vedervisi un riferimento allo “stato interiore di non belligeranza”, forse una caparra del Regno dei cieli, ove non vi sono né “guerra” né “pace”, dualismo fatale in cui si dibatte l’umanità.
Carissimo e prezioso R.S.,
oggi mi perdonerà e accetterà che le scriva lungamente e, presumo (a causa del sistema), a più riprese.
Infatti è da troppo che “penso” di scriverle direttamente; e attendo…
Bisogna saper attendere, talvolta, ma neanche si può troppo rimandare!
Aspettarsi, poi, non è forse vera fratellanza in Cristo?
Esige reciprocità!
E la reciprocità obbliga entrambe le parti a lasciar spazio all’altro.
Premetto che tratti di questo articolo evocano quel lirismo misticheggiante, – della porta accanto, perciò tanto più verace e stordente! -, che tanto bene fa alla mia anima.
Altri invece mi sucitano puntiglio, che mortifico, perchè il senso generale è comunque ben reso, segno di retta intenzione e di un “mettercela tutta”.
E’ evidente, poi, che la sua penna, caro R.S., risente felicemente anche dell’influenza del ricco ed eterodosso “commentario”, ospitato dall’esemplare accoglienza del nostro Capitan Tosatti, il quale permette a grano e zizzania di crescere, senza punto arrogarsi l’azione di tagliare nè l’uno nè l’altra. La qual cosa, al mio ingresso in arena avvenuto circa un paio d’anni orsono, seppe darmi una bella lezione pratica; e mi ispira ancor oggi!
“Risente felicemente”, dicevo: sì! Ascoltare non è scontato! Sapersi mettere in ascolto è il primo e forse più difficile passo che contraddistingue chi è chiamato e corrisponde da chi, pur chiamato, fa orecchie da mercante.
Ma ora la ragione di questo mio primo messaggio, che intende raggiungere direttamente la parte conclusiva del suo articolo:
La prego vivamente di leggere “Madre Teresa. Sii la mia luce”, a cura di Brian Kolodiejchuk, edizioni BUR Rizzoli.
Ritengo di aver veramente “conosciuto” la Santa di Calcutta e la vita di Dio in lei, vera “bambina”, solo dopo aver “vissuto” queste “righe”, bellissime spiazzanti e “violente” che la riguardano e che ce la riconsegnano più vera che mai.
In particolare, con estremo dolore e non senza affanno interiore, impossibile per me dimenticare cosa viene detto a proposito dei bambini a rischio di salvezza, caro R.S. …
Non riporto il passaggio perchè resterebbe slegato dal libro e risulterebbe per alcuni – ahimè – scandaloso, ovverossia pietra di inciampo.
Ma questo argomentone dovrebbe metterci in ginocchio e farci riflettere molto seriamente.
Ne accenno a lei perchè auspico possa avviarsi personalmente ad un approfondimento, magari ricordando anche quando suor Lucia di Fatima chiese alla Madonna riguardo al destino eterno della sua amica Amelia, morta in giovanissima età.
Per ora, un fraterno grazie.
Grazie a lei.
Purtroppo anche l’anima di un bambino può inquinarsi di peccato, per cui (non conoscendo le righe di Madre Teresa) non mi sorprende quello che Suor Lucia venne a sapere della sua piccola amica.
Non c’è nulla di scontato, mai. La piccola via e la piccolezza sono punti di riferimento per l’adulto che cerca Dio e non il mondo. Il mondo oggi non educa ragazzi e ragazze ad essere sposi, padri e madri: ne ottunde l’anima drogando i sensi e irridendo la preghiera. Il mondo inizia a confondere fin da bambini.
Il bambino può commettere peccato grave pur non avendone ancora piena avvertenza. L’anima, in caso di morte precoce, dovrà purificarsi secondo la giustizia divina. L’enorme numero di anime purganti misurano la divina misericordia, che vuole salvare ma non sorvola sui difetti anche delle anime più belle e a Lui vicine.
Un bimbo non sa nulla del purgatorio e nemmeno del peccato originale, ma il suo essere umano lo associa alla realtà che ci riguarda dopo la caduta.
Qui non volevo trattare dei Novissimi, ma indicare la via della piccolezza come chiave di lettura piccola del mistero, attingendo al genio dantesco e a quello di Sermonti che chiama lallazione la descrizione che Dante fa della visione di Dio, che vede San Bernardo intercedere presso la Madonna, dedicandole versi di bellezza purissima.
I bambini possono peccare, ma gli adulti lo fanno di più, anche se oggi piace pensare che il peccato non ci riguarda. La via della piccolezza è il modo migliore per seguire il Signore, a volte anche nell’essere vittime, aggiungendo al calice anche questo dolore innocente.
Non è inutile, ma concorre alla salvezza eterna delle anime che, in definitiva, è la cosa che conta di più.