Capitale e Lavoro. Osservatorio Internazionale Van Thuan.
18 Settembre 2023
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questo articolo di don Samuele Cecotti, apparso sul bollettino dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan, che ringraziamo per la cortesia. Buona lettura e diffusione.
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CAPITALE E LAVORO
Scrive papa Leone XIII nell’enciclica Rerum novarum:
«Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è il segnalare nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro i precisi confini. Pericolosa, perché uomini turbolenti ed astuti s’argomentano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a sommovimento dei popoli» (n. 1).
La questione del rapporto capitale/lavoro è centrale nel discorso socio-economico rappresentando il nucleo costitutivo dell’impresa e dunque definendo così la tipologia, gli assetti proprietari e le forme di governo delle aziende così come i rapporti di lavoro. In ragione di ciò ne segue anche la forma della società che in molto dipende dai rapporti economici, dalla composizione delle classi sociali, dalle modalità di lavoro, dalla tipologia delle aziende.
Anche nella relazione capitale/lavoro vi è un prima e un dopo la rivoluzione francese (o forse sarebbe meglio dire: un prima rappresentato dalla civiltà cristiana medievale sopravvissuta sino all’ancien régime e un dopo rappresentato dal mondo riplasmato dalla rivoluzione liberale) che papa Leone XIII indica con chiarezza:
«soppresse nel passato secolo le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli ed indifesi e in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male una usura divoratrice che, sebbene tante volte condannata dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, per fatto di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tantoché un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile» (Leone XIII, Rerum novarum, 2).
Con poche e schiette frasi Leone XIII ha descritto la società capitalista liberale di fine ottocento e ne ha indicato l’origine nella distruzione rivoluzionaria delle corporazioni e della societas christiana.
L’imporsi dell’ideologia liberale, tanto nel mondo anglosassone quanto in Europa, significa l’imporsi della Rivoluzione, ciò in campo economico assume la forma del liberal-capitalismo caratterizzato da:
- Separazione di capitale e lavoro;
- Primato del capitale sul lavoro;
- Concezione liberale della proprietà privata;
- Lavoro considerato quale merce;
- Rapporti capitale/lavoro rimessi al mercato (legge di domanda e offerta, salario merce, etc.) e regolati su base puramente contrattuale;
- Mercato come legge;
- Economia di scala.
Ciò significa la devastazione, sul piano socio-economico, della societas christiana già ferita mortalmente sul piano politico-giuridico, infatti il liberal-capitalismo si oppone radicalmente, sin dai principi, alla visione cristiana della società e dell’economia.
Nella comprensione cristiana dell’economia, dei rapporti capitale/lavoro, infatti, la separazione di capitale e lavoro non è la norma, anzi la condizione fisiologica è quella in cui chi lavora possiede i mezzi materiali necessari al lavoro o, detto altrimenti, chi possiede i mezzi di produzione anche lavora, ovvero impiega i propri mezzi (i propri capitali) per compiere il proprio lavoro. È il caso dell’artigiano, del mercante o del professionista che lavora in proprio.
Il primato è del lavoro sul capitale stante anche la condanna dell’usura da parte della Chiesa (significativamente Leone XIII comprende nell’usura anche l’ingorda speculazione) ovvero il principio per cui ogni profitto viene/deve venire dal lavoro. Il danaro è in se stesso sterile, non si produce danaro con il danaro ma è piuttosto il lavoro a produrre beni e servizi che creano nuova ricchezza. Dunque il centro e motore dell’economia è/deve essere il lavoro, non il capitale[1], il capitale è/deve essere a servizio del lavoro e non viceversa.
Il lavoro è vocazione originaria dell’uomo, è collaborazione all’opera del Creatore, è atto libero e intelligente, è attività personale e mai può essere ridotto a merce.
La proprietà è dominium responsabile conforme all’ordine naturale di giustizia regolato dalle legittime consuetudini giuridiche e strettamente legato alla vita della famiglia e della comunità.
I rapporti capitale/lavoro sono regolati dall’ordine obiettivo di giustizia riconosciuto dalla tradizione giuridica nonché dagli usi e dalle consuetudini, sono le corporazioni, ovvero le associazioni di categoria dei lavoratori (titolari di bottega e salariati assieme), inoltre, a definire orari di lavoro, retribuzioni, giornate lavorative e festive, etc.
Il mercato è limitato, per molti aspetti, entro i confini delle diverse giurisdizioni temporali e regolato, oltre che dal diritto civile, dalla legge morale e dalle pratiche religiose, su cui vigila la Chiesa, e dalle corporazioni.
L’economia tende ad avere dimensioni locali anche perché i movimenti di capitali e merci sono molto limitati. In ogni caso si dà un chiarissimo primato del diritto (civile, ecclesiastico, corporativo) sull’economia.
Le rivoluzioni liberali hanno spazzato via tutto ciò imponendo il nuovo modello socio-economico, quello liberal-capitalista, reso ancor più sconvolgente dai progressi della tecnica e dal conseguente passaggio all’economia industriale.
Come non bastasse la rivoluzione liberale e l’imporsi del liberal-capitalismo, Leone XIII si trovò a dover fronteggiare anche l’apparente alternativa (al liberal-capitalismo) rappresentata dal social-comunismo. Alternativa solo apparente perché liberal-capitalismo e social-comunismo sono in realtà accomunati dalla medesima visione di fondo sull’uomo, la società e l’economia. Entrambe le opzioni ideologiche, materialiste ed economicistiche, sono radicalmente inconciliabili con la societas christiana e con la comprensione cristiana del lavoro e dell’economia.
Durissima la condanna di Leone XIII per la falsa alternativa socialista che vuole, non già riportare all’ordine naturale di giustizia i rapporti economici, ma piuttosto, sempre dentro il paradigma imposto dalle rivoluzioni liberali, intende collettivizzare la proprietà ponendo il capitale/mezzi di produzione sotto l’amministrazione dello Stato: «Ma questa via, non che risolvere la contesa, non fa che danneggiare gli stessi operai; ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e gli offici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale» (Rerum novarum, 3).
L’opera grandiosa che Leone XIII intraprese fu, invece, quella di gettare le basi per la restaurazione della res publica christianae ciò anche relativamente all’economia, ai rapporti capitale/lavoro.
La Dottrina sociale della Chiesa fa tesoro della millenaria tradizione sociale e giuridica della Cristianità, così come della riflessione filosofico-teologica nel campo della morale sociale. Ciò per offrire, non solo un giudizio lucido sulla condizione socio-economica e politica, ma anche per indicare progettualmente una vera alternativa conforme al diritto naturale illuminato dalla luce di Cristo.
Quale è dunque la lezione della Dottrina sociale della Chiesa circa il rapporto capitale/lavoro?
Il quadro filosofico della Dottrina sociale è quello del realismo classico-cristiano e dunque, anche relativamente all’economia in genere e al rapporto capitale/lavoro in specie, la dottrina parte sempre dal riconoscimento della realtà. La realtà razionalmente considerata dice che l’uomo, chiamato a lavorare per procurare a sé e alla propria famiglia quanto necessario e utile, abbisogna di mezzi materiali per il lavoro. Che si tratti di agricoltura o di industria, di estrazione mineraria o di commercio, il lavoro umano necessità di mezzi materiali per potersi dare e/o dare con profitto. E tali mezzi materiali sono oggetto di legittima proprietà privata, vi è cioè il proprietario dell’opificio, degli attrezzi, delle sementi, dei macchinari, del denaro necessario ad acquistare le merci, etc. Necessari cioè sono il lavoro e il capitale: «né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale» (Rerum novarum, 15) perché «l’uno senza l’altro non valgono a produrre nulla» (Pio XI, Quadragesimo anno, 54).
Si diceva già che nella comprensione cristiana dell’economia la fisiologia corrisponde ad una economia di proprietari-lavoratori (coltivatori diretti, artigiani, commercianti, esercenti, liberi professionisti) dove cioè non vi è distinzione tra capitalista e lavoratore, dove non vi è separazione tra capitale e lavoro, dove il proprietario del capitale aziendale è colui che lavora.
Se la fisiologia è quella del lavoratore autonomo, di colui che lavora “in proprio”, la Dottrina sociale non ha mai condannato in termini di principio il lavoro salariato ovvero il lavoro dipendente e con ciò è riconosciuta, se pur non corrispondente all’ideale, la possibilità di una separazione tra capitale e lavoro.
Vi fu nel 1949 il tentativo da parte del Congresso cattolico di Bachum di dichiarare contrario al diritto naturale il lavoro salariato riconoscendo come esigito dalla natura e quindi da Dio il contractus societatis e dunque la cogestione delle aziende. A tale documento del Katholikentag rispose papa Pio XII il 7 maggio dello stesso 1949 con un celebre discorso ai membri dell’Union Internationale des Associations Patronales Catholiques e poi con altri due interventi nel 1950 e nel 1952, con i quali ribadiva la legittimità del lavoro dipendente, del contratto di lavoro e del regime salariale.
La separazione di capitale e lavoro, il lavoro dipendente salariato, il profitto da capitale, tutto ciò non è condannato di principio dalla Dottrina sociale a patto però di condizioni ben precise:
– condanna dell’usura e della speculazione;
– primato del lavoro sul capitale[2];
– condizioni di lavoro conformi alla dignità umana dei lavoratori;
– giusto salario;
– condanna di monopoli, oligopoli e altre concentrazioni;
– responsabilità sociale dell’impresa
Vi è poi la questione non piccola della regolazione dei rapporti capitale/lavoro nelle aziende con personalità giuridica propria. Se infatti è sempre lecito ad un proprietario assumere uno o più lavoratori dipendenti per farli lavorare nella propria impresa economica, così come è sempre lecito ad uno o più lavoratori (ad esempio riuniti in cooperativa) procurarsi il capitale, i mezzi di produzione necessari al proprio lavoro autonomo, la questione si pone quando l’impresa non è più intesa come l’attività economica di una o più persone fisiche ma come persona giuridica. Il proprietario del capitale può procurarsi il lavoro così come il/i lavoratore/i può/possono procurarsi il capitale, ma quando l’impresa è una persona giuridica diviene necessario interrogarsi sulla realtà di tale ente giuridico. Cos’è un’azienda in se stessa?
Nel quadro liberal-capitalista la risposta all’interrogativo rende evidente il primato assegnato al capitale sul lavoro. L’azienda con personalità giuridica è considerata come una proprietà di colui/coloro che vi detengono il capitale. Così considerata l’azienda è però ridotta al solo capitale – può essere detta impresa anonima di capitale – mentre invece l’azienda nasce e vive dall’incontro collaborativo di capitale e lavoro. L’azienda non è il solo capitale, l’azienda non è il solo lavoro, l’azienda è il consorzio di capitale e lavoro uniti nel comune fine d’impresa[3].
Partendo dai punti fermi della Dottrina sociale, il giurista cattolico Carlo Francesco D’Agostino[4], con diversi suoi studi e documenti politici, indicherà la via dell’associazionismo aziendale ovvero la comprensione dell’azienda con personalità giuridica come una associazione di capitale e lavoro, l’azienda non dunque come una proprietà di solo capitale ma come una comunità di lavoro giuridicamente regolata in forma di associazione data dall’incontro collaborativo e stabile tra capitale e lavoro.
La proposta associazionista di D’Agostino corrisponde alla ratio più genuina della Dottrina sociale e rappresenta una reale alternativa al modello liberal-capitalista riportando al centro il lavoro pur senza negare i legittimi diritti di proprietà. Inoltre la vita d’impresa tornerebbe, come nell’ancien régime, a darsi dentro uno schema comunitario e interclassista-corporativo, perché tanto i portatori di capitale quanto i lavoratori tutti sarebbero ugualmente imprenditori in quanto partecipi del rischio d’impresa, in quanto soci di quella associazione che è l’azienda.
La proposta associazionista di D’Agostino non è Dottrina sociale della Chiesa ma una sua intelligente traduzione, da parte di un giurista e politico cattolico, in un modello societario e di regolazione del rapporto capitale/lavoro altro da quello liberale. Così come è traduzione intelligente della Dottrina sociale della Chiesa la proposta distributista inglese che si concentra sulla riattivazione delle corporazioni di arti e mestieri, sulla diffusione massima della piccola proprietà e su una economia di prossimità basata sull’artigianato e le imprese familiari.
Associazionismo aziendale e distributismo sono due interessanti proposte novecentesche di applicazione della Dottrina sociale della Chiesa. In quanto proposte non sono vincolanti e ogni cattolico è libero di acconsentirvi o di criticarle ma, che le si approvi o le si critichi, non si può negarne il pregio di ricordarci la radicalità della Dottrina sociale e quanto essa sia inconciliabilmente distante dal paradigma liberal-capitalismo dentro cui viviamo.
La dottrina cattolica su economia e lavoro, sul rapporto tra capitale e lavoro non è minimamento un semplice correttivo estetico al liberalismo economico e mai può così essere intesa, è radicalmente altro. Disegna un quadro economico essenzialmente alternativo tanto a quello liberal-capitalista quanto a quello social-comunista.
Il rapporto capitale/lavoro è inteso dalla Dottrina sociale come rapporto naturale necessitato dalla natura stessa del lavoro umano. In quanto tale dice naturale il consorzio tra capitale e lavoro e dunque doverosamente collaborativa e non conflittuale la relazione tra portatori di capitale e lavoratori. Solo dall’incontro e dalla collaborazione stabile di capitale e lavoro nasce l’impresa economica che è per se stessa una comunità di lavoro unita dal comune fine d’impresa.
In questa naturale collaborazione si radica il principio corporativo tale per cui titolari d’azienda e lavoratori dipendenti costituiscono una medesima comunità e assieme regolano la vita socio-economica del proprio settore. Così pure il primato del lavoro sul capitale non nega i legittimi diritti di proprietà o l’apporto fondamentale del capitale nell’impresa ma riconosce il giusto ordine tale per cui il capitale è per il lavoro e non il lavoro per il capitale, sono le esigenze del lavoro a richiedere il capitale e non il capitale a servirsi del lavoro. Il fine dell’economia non è l’accrescimento del capitale ma la produzione di beni e servizi attraverso un lavoro dignitoso e veramente umano, ciò a beneficio di persone e famiglie.
Tutto questo porta la Dottrina sociale della Chiesa a indicare come da preferirsi e favorire il lavoro autonomo dove capitale e lavoro sono congiunti. Le imprese a conduzione familiare, l’artigianato, il piccolo commercio, l’agricoltura a conduzione diretta sono l’espressione concreta di una economia pensata secondo la Dottrina sociale.
Lo stesso lavoro dipendente vissuto e regolato quanto più possibile come fosse “lavoro in proprio”[5]. E poi la condanna di usura e speculazione, di monopoli, oligopoli e concentrazioni di ricchezza[6]. Una idea collaborativa e non conflittuale dei rapporti capitale/lavoro. Una vita economico/lavorativa a misura d’uomo.
È evidente a tutti quanto la concezione cattolica dell’economia, dei rapporti capitale/lavoro sia distante dalla situazione presente, dal paradigma liberal-capitalista che domina a partire dalle rivoluzioni liberali di fine settecento.
Samuele Cecotti
[1] Nel medioevo questa verità era sentenza comune e certa, ben la presenta Dante nella Commedia condannando gli usurai (da intendere anche come speculatori) all’inferno come violenti contro Dio, in quanto cercano il profitto non nel lavoro ma nel maneggio del denaro (cfr. If, XI, 94-111): «perché l’usuriere altra via tene,/ per sé natura e per la sua seguace/ dispregia, poi ch’in altro pon la spene» (If XI, 109-111).
[2] «principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale. Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 12)
[3] «tolto il caso che altri lavorino intorno al proprio capitale, tanto l’opera altrui quanto l’altrui capitale debbono associarsi in un comune consorzio […] per cui è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro» (Pio XI, Quadragesimo anno, 54).
[4] Cfr. C. F. D’Agostino, Associazionismo aziendale: soluzione del problema dei rapporti tra Capitale e Lavoro in armonia con gli Insegnamenti Pontifici, Casa Editrice L’Alleanza Italiana, Roma 1953; S. Cecotti, Associazionismo aziendale. La regolazione secondo giustizia del rapporto capitale/lavoro (nell’impresa economica) nel progetto sociale di Carlo Francesco D’Agostino, Cantagalli, Siena 2013.
[5] «Si deve fare di tutto perché l’uomo, anche in un tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare “in proprio”» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 15)
[6] «E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale […] Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; […] Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza» (Pio XI, Quadragesimo anno, 105, 106, 107)
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