Resurrexit Christus Vere? La Storicità della Resurrezione. Cordedda.
26 Aprile 2023
Marco Tosatti
Carissimi StilumCuriali, offriamo alla vostra attenzione questo articolo, apparso su Il Pensiero Cattolico, che ringraziamo per la cortesia. Buona lettura e condivisione
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Daniele Cordedda : “Nota su esperienza e testimonianza della Risurrezione nel Nuovo Testamento”
In questo breve articolo vogliamo puntare l’attenzione su un punto problematico di una parte purtroppo non minoritaria dell’esegesi neotestamentaria contemporanea: l’interpretazione della storicità della Risurrezione di Cristo e il ruolo della comunità primitiva nell’elaborazione dei racconti della tomba vuota. La Risurrezione va intesa come un fatto storico vero e proprio oppure come una pura esperienza interiore degli apostoli? Se la seconda ipotesi fosse vera, si dovrebbe creare artificiosamente nell’insieme delle testimonianze pasquali del Nuovo Testamento una cesura ingiustificabile: quella tra storia e fede. Ma questa dicotomia non rivestiva nessun interesse per la prima generazione cristiana.
Il programma esegetico del protestantesimo liberale seguiva, nei confronti del Nuovo Testamento, un precetto che non poteva essere messo in discussione: considerare ogni professione di fede nella Risurrezione di Gesù Cristo e ogni racconto delle visioni del Risorto presenti nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli -ma anche in alcuni testi paolini- come il risultato di una lunga e intricata elaborazione letteraria e teologica. La funzione di un tale lavorìo teologico sarebbe stata quella di costruire un racconto capace di restituire in termini narrativi la testimonianza di un’esperienza che non era strettamente storica, ma interiore e mistica. Il fatto che si trattasse di una interpretazione la cui logica rimaneva tutta interna alla testimonianza stessa rendeva impossibile -e in fondo sbagliato- cercare di ricostruire gli eventi storici soggiacenti a quei testi. I racconti pasquali non dovevano essere presi alla lettera. Il loro valore storico doveva considerarsi nullo. Ciò che contava era la loro interpretazione. Nel migliore dei casi, si ipotizzava che a questa elaborazione apostolica e subapostolica si accompagnasse una sostanziale buona fede; nel peggiore, si immaginava di aver a che fare con una dannosa sofisticazione dell’originaria esperienza cristiana. In ambedue i casi, tale elaborazione avrebbe avuto il suo punto di partenza in una intuizione “spirituale”, in un fenomeno puramente interiore. La fede degli apostoli, allo sguardo demistificatorio dell’esegeta, doveva perciò risultare indipendente dai racconti degli incontri sensibili col Risorto, come anche dai racconti della tomba vuota. Occorreva separare quella fede da qualunque concezione esplicitamente e crudamente “fisica” della Risurrezione di Cristo, e questo fin negli strati più arcaici della documentazione evangelica. Il modernismo cattolico (sia nella sua forma originale, tra fine ottocento e primi del novecento, sia nella sua incarnazione “progressista” postbellica) seguì il protestantesimo su questa strada.
Una fede impossibile?
L’impostazione era essenzialmente ideologica, e rispondeva a un presupposto storico e filosofico preciso, cioè alla postulata impossibilità di credere a una Risurrezione (intesa come rianimazione) reale di Cristo nella cornice della Weltanschauung moderna. Il significato dei racconti evangelici veniva quindi ridotto secondo la misura di una mancanza di fede che doveva essere ormai assunta come un dato inconfutabile ed irreversibile. Gli strumenti di questo programma di lungo corso -che arriva coi suoi più recenti epigoni sino a noi- si sono avvicendati e sovrapposti: lo storicismo romantico con la sua fascinazione per lo spessore poetante e trasfigurante della tradizione biblica, il sociologismo con il suo corollario di eziologie contestuali, l’esistenzialismo con la sua smania di attualizzare l’appello alla conversione -il kérygma – saltando a pie’ pari la concretezza storica dell’evento evangelico. Parlando della Risurrezione come di un «mito», Rudolf Bultmann fu in fondo onesto riguardo al suo programma teologico, e rivelò al di là di ogni ragionevole dubbio quale è l’esito a cui esso conduceva.
Le cause prossime e quelle remote di un simile programma intellettuale (e pastorale: questa impostazione doveva tracimare immediatamente, con un entusiasmo degno di altre imprese, nella predicazione, la quale si imbottì in men che non si dica di richiami al «Sitz im Leben», alla «comunità primitiva pre e postpasquale» e alla «comprensione non mitica della Risurrezione») devono essere cercate nella inamovibile convinzione che sia assolutamente impossibile, all’uomo entzaubert (disincantato) dell’epoca tecnologica, credere ad eventi soprannaturali. Il rifiuto pregiudiziale del miracolo è la tara di questo atteggiamento spirituale. La Risurrezione del Signore è il più clamoroso tra i miracoli, e in quanto tale doveva essere espunta nella sua letteralità, per entrare in quel limbo fumoso e anfibio che è lo spazio interpretativo. A mediare tra l’evento storico concreto, la sua risonanza esperienziale nel mondo interiore degli apostoli e l’espressione linguistico-narrativa di quell’esperienza sarebbe rimasto solo il milieu esegetico di una modernità intellettualmente avara, che legifera tirannicamente sui confini della credibilità spostandone continuamente i paletti, ma senza rendersi mai conto fino in fondo della sua soffocante autoreferenzialità. All’interno di questo spazio cangiante può regnare solo il sospetto, che non a caso è stato coltivato come una virtù cardinale. Non parliamo in questo caso di quel sospetto metodologico che è parte insostituibile della dimensione critica della ricerca esegetica. Parliamo di un sospetto che si insedia nel campo in cui normalmente dovrebbero prosperare l’amore al testo, l’obbedienza alla verità e la serietà nei confronti della rivelazione; parliamo di una diffidenza pervicace e prevenuta verso qualunque affermazione soprannaturale, che smette di essere una precauzione metodologica per farsi -sotto la maschera austera dell’onestà intellettuale- postura teoretica e atteggiamento esistenziale .
Due tipi di testimonianza?
Su di un piano strettamente metodologico, questo genere di esegesi comporta l’introduzione di una rottura, di una disomogeneità nella interpretazione delle testimonianze apostoliche. Avremmo così, secondo questa impostazione, due tipologie di racconti: quelli in cui si riferiscono fatti reali, storici, e quelli in cui si riferisce -sotto una veste narrativa che sarebbe in realtà una protointerpretazione teologica- l’esperienza propriamente indicibile del Gesù vivo nello Spirito. Che uno schema simile sia -come detto- di natura ideologica lo dimostra il fatto, molto chiaro, che non sia affatto questa l’intenzione dei testi neotestamentari. Prendiamo, a titolo di esempio, il discorso di Pietro a Cornelio riportato in At 10, in particolare ai vv.39-41. Gli apostoli sono testimoni tanto delle cose compiute da Gesù nella regione dei giudei e a Gerusalemme quanto della sua Risurrezione. Non c’è soluzione di continuità tra i due generi di testimonianza; non sono riferiti l’uno a fatti esteriori -sensibili- e l’altro ad un’esperienza interiore del Cristo vivente e glorioso, che poi debba essere tradotta nei termini immaginativi di una narrazione. Sono invece le due parti di una testimonianza omogenea, che si riferisce in tutti e due i casi a eventi storici. Non abbiamo a che fare con due esperienze eterogenee, che avrebbero come oggetto l’una il Gesù della storia e l’altra il Cristo della fede. Distinzioni di questo genere rispondono molto bene alla mentalità dell’esegeta moderno, ma di sicuro non si riscontrano nella natura specifica della testimonianza degli apostoli e nell’intenzione autentica dei testi in cui essa si è depositata (cf. At 4,20).
Le apparizioni non sono dunque l’esplicitazione immaginativa di una qualche esperienza interiore con cui Cristo si sarebbe rivelato come vivente. Non è questo che intendono i nostri testimoni. Una simile affermazione sarebbe una pura invenzione a posteriori, che rifletterebbe la mentalità dell’esegeta, non quella degli apostoli e dei discepoli. […] “Risuscitato” non può avere due sensi. O significa che il corpo del Cristo non è rimasto nella tomba, ma è stato vivificato dalla potenza di Dio ed ha così potuto essere visto e toccato, allo stesso modo di prima, dai testimoni, o non significa niente.
(Jean Danielou, La Risurrezione, 1969)
Intendere la Risurrezione di Cristo come la pura “interpretazione” di una “esperienza interiore”, prescindendo dalla sua natura di fatto concreto, rende di fatto impossibile comprendere o anche solo giustificare la predicazione apostolica così come ci è trasmessa in testi come quello di At 2,29-31, in cui il discorso sul corpo, sulla «carne» di Cristo, diventa il criterio di verifica della profezia. Di questo parlavano gli apostoli. Questo volevano testimoniare al mondo. Non è la fede della comunità primitiva in quella “esperienza interiore” ad aver generato i racconti evangelici come affabulazione e mitopoiesi; piuttosto, è la testimonianza delle apparizioni sensibili del Risorto offerta dagli apostoli di fronte alla comunità a costituire il senso di quei racconti. Racconti che la Chiesa ha sempre recepito come resoconti di eventi reali. La Risurrezione di Cristo non è il prodotto della fede: è la fede ad essere la conseguenza della Risurrezione.
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Tag: cordedda, pensiero cattolico, resurrezione
Categoria: Generale
Milano, 27.04.2023 – Tempo Pasquale
Buona sera Dottor Tosatti,
perdonate la sinteticità del mio pensiero.
Credo in unum Deum, … Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio… Generato, non creato, della Stessa Sostanza del Padre… Il Risorto è Rigenerato dalla Potenza Creatrice, la Potenza Creatrice lo rende Immortale: Non muore più, Non c’è una seconda morte…
Grazie
Cordialmente
F.D.E.
Scusate ma DANIELOU non era un pericoloso modernista??
No, non lo era. E anche se lo fosse stato il semplice fatto che anche lui vedesse la follia di una certa esegesi è indicativo a fortiori.
Ottima sintesi. Mi piacerebbe essere rassicurato sul fatto che l’interpretazione “modernista” venga studiata nei seminari e nelle facoltà teologiche solo come un punto di vista chiaramente incompatibile con la fede cattolica, senza margini di ambiguità.
La stragrande quantità di ciò che si sa e si crede lo si apprende tramite il RACCONTO: orale o scritto che sia, il RACCONTARE, come dice l’etimo, è RE-AD-CONTARE: RIPETERE-VERSO-NARRARE. Il racconto è quindi il riferire di un soggetto circa un fatto che per essere conosciuto, oltre che saputo e creduto, ha da essere messo in atto, cioè vissuto integralmente con anima e corpo. E tale conoscere non può che costituire un labor ognora in corso, vale a dire ognora perfettibile. La verità di una dottrina non può restare soltanto creduta, ma ha da essere trasformante, quindi, seppur con gradualità, conoscente.
Questo labor(atorio) non può esimersi dal comprendere il riflettere, che è una libera facoltà dell’uomo di cui, se essa è davvero libera, occorre accettare i rischi, dacché essa può produrre pensieri che si oppongono tra di loro per le più svariate motivazioni. Pertanto, occorre rendersi onestamente conto della contraddizione in cui cade chi (su qualunque versante si trovi) per un verso ammette che la riflessione sia libera e dall’altro nega tale libertà pretendendone la sottomissione ad una qualsiasi dottrina già elaborata da un RACCONTO quale, in questo caso, il Vangelo.
Da quanto sopra si evince che il conflitto dialettico è inevitabile e che la responsabilità della fede, della riflessione e delle sue deduzioni ricadono interamente sul soggetto che crede, riflette e deduce, ciò che, paradossalmente, rende superfluo ogni contenzioso. E restando inteso che il giudizio definitivo riguardo al soggetto spetta solo a Dio.
Così, grazie alla libertà di riflessione, tanto coloro che credono al RACCONTO della Resurrezione come verità storica quanto coloro che vi credono come verità mitica, vanno ciascuno per la propria strada, usando liberamente del proprio labor(atorio).
Con la minuscola ed insignificante differenza che passa tra il credere una cosa vera (metti le dita nelle piaghe) e una bella idea. Il cristianesimo per molti è una bella idea. Per qualcuno è un evento storico (il Verbo si è fatto carne, è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato, è risorto, è vivo) che apre l’esperienza del discepolo anche a tante belle idee. Non è la stessa cosa.
Quando lei dice “credere a una cosa vera”, dice che è la fede in quella cosa a dire che essa è vera, ma la fede è soggettiva, ed infatti c’è anche la fede in una “bella idea” anch’essa creduta vera.
Al fine l’uomo è ciò che pensa, ed il suo pensare – ed agire – non può fare a meno del suo specifico credere.
“Le dita nelle piaghe”, come pure il “vide e credette”, sono descritti in Giovanni come esperienze personali di due discepoli, e non di chi lo legge, che può credervi assumendolo a lettera, quindi come fatto storico, oppure interpretandolo in senso mitico.
Siamo di nuovo nel campo della libera riflessione (e della libera fede), se essa è facoltà soggettiva davvero libera.
La coartazione a credere questo e quello, ed al riflettere così e così, da qualunque parte vengano esercitate, è fuori luogo e controproducente.
Caro Enrico, nessuno è “coartato” a credere.
Tommaso dice spontaneamente “Mio Signore e mio Dio”. Gesù per altro dice beato chi non avrà bisogno di così tanta evidenza per diventare credente (perché credenti si diventa, non lo si è già).
Sto solo asserendo che un fatto storico è differente da un’idea, restando è pacifico che la fede (in Dio, non negli idoli) è una grazia (e dunque un dono), ricevuto e accolto.
Se invece si asserisce che qualunque fede sia fede (nel vitello d’oro come nel Cristo) e qualunque motivo per credere si equivalga (la presenza reale del Signore nell’Eucaristia è confermata dai miracoli eucaristici, mentre il credere a Pachamama no) allora chi lo pensasse non mi “coarti” a ritenerlo vero.
Forse non mi sono spiegato bene e chiedo venia.
Mettiamola così:
nessuno può coartare chicchessia e, anche, nessuno può condannare chicchessia.
Non si tratta di “equivalenza”, bensì, al contrario, di esclusività rivendicata da chi, parlando in senso lato, segue una determinata fede.
Lei parla da cattolico e pertanto CREDE che la Resurrezione sia un fatto storico.
C’è in vece chi CREDE che sia un’idea o un mito.
Dov’è il motivo del contendere? Il CREDERE è libero e soggettivo.
Il contenzioso può sorgere soltanto se chi CREDE in una delle due soluzioni, anatemizza chi CREDE nell’altra.
La ringrazio per questo scambio.
Gentile Enrico, posso chiederle una cosa? Lei crede che Cristo sia realmente risorto nel suo corpo? Perché questo è ciò che gli apostoli hanno testimoniato versando il sangue. Questo è ciò che la Chiesa ha insegnato per due milleni. La ringrazio se vorrà rispondermi.
Certo che lo credo.
Ma sono anche convinto che ognuno crede a ciò che ritiene di dover credere, e non mi sento autorizzato, in nessun modo, a giudicare e condannare (temerariamente) ciò che credono gli altri.
Nessuno, tranne Dio, può sapere cosa alberga in fondo al cuore dell’uomo, quindi solo Lui è il Giudice, i cui criteri, oltretutto, sono a noi inaccessibili.
Un cordiale saluto.
Satana è liberamente all’inferno.
Il problema esegetico qui ottimamente impostato si risolve nell’esistenza di un dogma sotteso e ideologico:
il PRECETTO che non poteva essere messo in discussione. E cioè il “considerare ogni professione di fede nella Risurrezione di Gesù Cristo e ogni racconto delle visioni del Risorto presenti nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli -ma anche in alcuni testi paolini- come il risultato di una lunga e intricata elaborazione letteraria e teologica”.
Cioè: “il loro valore storico doveva considerarsi nullo”.
E’ curioso che ancora oggi ci siano sacerdoti, catechisti e teologi che inneggiano all’amore per la Parola di Dio, ma mantenendosi imbevuti di questo “precetto” e di questa “considerazione” circa la storicità dei vangeli, in primis quelli della resurrezione.
Personalmente, amando e contemplando prima di tutto il Signore vivente e realmente presente, ho raccolto molti dati anche sull’attendibilità storica dei vangeli, cioè della Parola scritta sedimentata dalle parole del Verbo incarnato e grazie a chi le ha udite (vedendo i fatti) e non di “comunità” riunitesi a stabilire delle improbabili sintesi qualche decennio dopo i fatti.
Da quando Gesù ascese al Padre alla comparsa dell’ultimo dei vangeli canonici non trascorsero più di 25 anni. Gli scritti di Matteo e Marco circolarono già nei primi anni 40 del primo secolo. Luca scrisse molto dell’infanzia con gli occhi di Maria e sicuramente attinse da lei quando ancora non era stata assunta in cielo. San Paolo parla del vangelo di Luca, dicendolo già famoso, scrivendone ai Corinti.