Degenerazione Antropologica. Il Governo Tradisce i Suoi Elettori? Formicola.
16 Marzo 2023
Marco Tosatti
Carissimi StilumCuriali, l’avvocato Giovanni Formicola offre alla vostra attenzione la seconda parte delle riflessioni sul governo in carica nel nostro Paese. La prima parte la trovate a questo collegamento. Buona lettura e diffusione.
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Se, come osservo nella prima parte, sul piano socio-economico il centrodestra rischia di esser tale, e spesso così è, in name only, solo nel nome, come dicono negli USA dei repubblicani liberal, e cioè «di sinistra», è sul piano socio-culturale-morale che un certo cedimento e mancanza di ferma coerenza col proclamato sta diventando deriva – e forse ormai già la è – genderista, omosessualista, abortista («la legge abortista non si tocca», e questo è il senso di una risoluzione votata in parlamento dalla maggioranza), divorzista, eutanasista, per non dire del grave deficit di senso sovrano che spinge ad uniformarsi con totale docilità e passività al nuovo impero del male globalista. E se questo può trovare una spiegazione – non una giustificazione – nel contesto occidentale (con la minuscola!) che altrimenti, soprattutto con gli strumenti finanziari e mediatici, gl’impedirebbe di governare, e quindi sarebbe effetto d’una costrizione, in realtà ha radici più profonde e motivazioni più strutturali.
Al di là della sua componente centrista e intrinsecamente compromissoria, ma purtroppo anche libertaria-libertina, e di quella che ha subito un revirement di posizioni che può essere spiegato solo con una combinazione d’incultura, ambizione di governo costi quel che costi (foss’anche consegnandosi in bocca al drago) e magari con un ricatto giudiziario, è la sua componente maggiore ad avere ascendenze e tali radici profonde (sebbene per lo più non tematizzate dai suoi stessi attori), che a mio avviso la rendono particolarmente esposta a queste derive progressiste, rectius futuriste. Quest’ascendenza, prima ancora che fascistica – del primo e dell’ultimo fascismo – a mio avviso va rinvenuta nel caso fiumano.
Mi avvalgo per esaminarla dell’Appendice, cui rinvio per una maggiore completezza e approfondimento, appunto dedicata alla vicenda di Fiume, nel mio Il Sessantotto. Macerie e speranza (Cantagalli, Siena 2018), allo scopo un po’ riveduta e integrata.
«Fiume», più dell’interventismo, è comunemente qualificata un’esperienza pre-fascista. Il fascismo è ritenuto «di destra», mentre è propriamente «di sinistra», sebbene con un consenso popolare proveniente dalla parte popolare opposta alla sinistra. Dunque, secondo tale paradigma interpretativo, «Fiume» è un’impresa «di destra». E la «destra» se ne convince, sicché accade così che venga inquinata da elementi «fiumani». Se sei di destra, sei fascista (e purtroppo quest’equazione ha fatto e fa presa in certi ambienti). Se sei fascista, devi accettare se non tutto e tutto insieme, almeno qualcosa di «Fiume». Ma «Fiume» è carsica, e come tale, una volta accettata anche solo parzialmente, «lavora» e riemerge, non necessariamente col proprio nome, certo con la propria identità. In realtà, probabilmente l’impresa fiumana, ovviamente insieme con il «pericolo rosso», fu uno dei principali fattori della svolta a destra di Mussolini: a fronte del carattere radicale, sovversivo, utopistico che essa andava via via assumendo, il futuro duce, anziché inseguire a sinistra D’Annunzio (all’epoca un suo reale concorrente), lo abbandona e si rivolge ai conservatori, proponendosi garante dell’ordine oltre che della grandezza patria. «Fiume» fu certamente celebrata dal fascismo, ma strumentalmente. La sua realtà di ricettacolo dei rivoluzionari d’ogni risma, un po’ come sarà la Parigi del 1968, fu tenuta nascosta, limitandosi a ricordarne il fine patriottico e l’eroismo legionario. Ma il «patriottismo» fiumano fu ben compreso da Gramsci: «Noi non siamo contro la patria, ma soltanto contro la patria borghese. La rivolta dannunziana contro il vassallaggio imposto dall’Inghilterra e dalla Francia all’Italia è anche una nostra rivolta. […] In questo senso noi continuiamo il movimento rivoluzionario di un secolo e mezzo fa per l’unità d’Italia».
E «Fiume la Città di vita» si concepì come «[…] una sorta di piccola “controsocietà” sperimentale, con idee e valori non propriamente in linea con quelli della morale corrente, nella disponibilità alla trasgressione della norma, alla pratica di massa del ribellismo. Libertà sessuale, omosessualità, uso di droga, nudismo, beffe, originalità degli atteggiamenti persino nella foggia del vestire dei legionari, nel loro modo di comportarsi […]. Queste manifestazioni collettive psicologiche e di costume esprimevano lo stesso “spirito nuovo” che si può riscontrare nelle visioni politico-sociali della Carta del Carnaro e della Lega di Fiume, che avrebbe dovuto riunire i rappresentanti dei popoli oppressi» (per non appesantire l’articolo, insisto a rimandare, per i riferimenti tutti, al mio piccolo libro citato).
Il che significava che fu affetta da «una febbre fatta, nei più risoluti, di orrore per la vita grigia di tutti i giorni, di disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il passato e per l’avvenire, di irridente spregio per la virtù e per il risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la monarchia, per la repubblica: di nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellezza questa inutile stupida vita, in una specie di orgia eroica. […] L’esplosione sfrenata di [questi sentimenti, che normalmente le persone reprimono,] fu forse la caratteristica più importante dell’ambiente legionario fiumano e segno di una situazione politica intrinsecamente rivoluzionaria, in cui D’Annunzio si trovò ad essere il capo, mandato avanti piuttosto dalla forza degli eventi che da una sua chiara volontà».
E così, fu teatro di «ribellioni caratterizzate dalla transitorietà, nate non per durare, ma per tracciare un segno, indicare una via, comete effimere destinate però a rimanere nella memoria collettiva e a incidere anche dopo la conclusione della loro parabola, come il Sessantotto»: la sua già indicata dimensione carsica.
E allora, allo «spirito piccolo borghese, calcolatore e meschino», i «fiumani» non oppongono le altezze dell’ascetica e della mistica religiose, ma i surrogati costituiti dal surrealismo, dall’apologia della follia, dell’assurdo, dell’irrazionale, del grottesco, dell’illogico. Pretese alternative estetizzanti, volontaristiche, eccentriche e provocatorie, che mai saranno idonee a dare risposta alle domande dell’uomo, e quindi le cancelleranno dall’orizzonte. L’alternativa, dunque, si pone sul piano estetico, piuttosto che filosofico: le estasi coribantiche contro le «giacche grigie».
È il clima culturale dominante a Fiume. L’individuo strutturato dalla ragione, dalla logica, dalla fede e dagl’istituti della civiltà va superato dall’io tutto desiderio, passione e fantasia. È un superomismo, più artistico che ideologico e razzista, che conclude in atteggiamenti che ancora una volta sintetizzano ciò che sarà il clima, diffuso e socializzato, negli anni a venire, quelli della IV Rivoluzione, cioè della Rivoluzione culturale-antropologica, che colpisce l’uomo stesso e le micro-struttrure sociali, come la famiglia, piuttosto che le macro-strutture, come la Chiesa, lo stato, l’assetto economico e la proprietà
E, quale che ne sia il grado di consapevolezza, «Fiume» ha lasciato nipotini a destra, dando luogo al singolare fenomeno delle «destre di sinistra» in Italia.
Trascurando in questa sede le dinamiche del fascismo, per le quali rimando al saggio introduttivo a Rivoluzione e Contro-Rivoluzione di Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (Cristianità, Piacenza 1972), e individuo almeno tre grandi filoni.
Il primo, quello dei «fascisti di sinistra» di Stanis Ruinas e del Pensiero nazionale. Agiscono dalla fine della guerra agli anni 1960, anche se il loro periodico uscirà fino al 1977. Anti-occidentali, socialisti, risorgimentalisti, anti-clericali, e non solo per avversione alla DC. A lungo in dialogo con il Pci, che delega Pajetta alla trattativa con loro. Le tematiche preferite sono quelle economiche e di politica estera, ma non disdegnano, trattandole sempre in modo rivoluzionario, quelle etiche.
Poi, i vari filoni della «destra sociale», socialisteggiante (cfr. il precedente articolo) e anti-americana, ma tendenzialmente di buone posizioni sui temi etici, benché non manchino le fughe in avanti.
Tuttavia, è stata Farefuturo di Fini – anche nel nome –, pur nel suo totale fallimento, la realtà che sembra aver incarnato meglio l’eredità diretta di «Fiume», ovviamente mutatis mutandis, soprattutto in riferimento ai toni e allo slancio ideale, tutto però a favore di «Fiume», e che comunque simboleggia questa deriva.
Le analogie, quando non le identità, riguardano, oltre tutto quanto già evocato, anche aspetti di dettaglio: la rivendicazione del diritto a contraddirsi e contraddire in nome del pluralismo interno di posizioni («Niente cemento! Niente blocco! Libertà assoluta di spiriti geniali, che spesso si contraddicono, come l’articolo di Russolo contraddice il mio, da una colonna all’altra dello stesso numero» [Filippo Tommaso Marinetti]); il tentativo di frenare una deriva «reazionaria», come provarono a fare Marinetti e Carli con Mussolini alla vigilia del congresso di Milano; fino a considerare l’antibolscevismo e il suo effetto destrorso come un «disco rotto», risultato di una paura esagerata, che si crea un falso spauracchio («[…] li portano [i capi fascisti] a combattere unicamente e disperatamente lo spauracchio bolscevico, mentre ben altri mostri e ben altre putredini rodono la vita italiana»).
A «Fiume» il coacervo di ideologie, sensibilità, mentalità («nazionalismo, ma anche nazionalcomunismo, cosmopolitismo, internazionalismo; e, contemporaneamente, sesso e droga, repubblica e diritto di voto per tutti, uguaglianza delle donne […], accordi con la Russia dei soviet[…]. C’è di tutto e ce n’è per tutti»), comunemente ritenute tra loro incompatibili, appare inestricabile e incomprensibile a chi non conosca la Rivoluzione, la sua multiformità, il suo carattere graduale e «processivo», per cui ciò che può apparire alternativo e come tale si presenta, non è che sviluppo (o tutt’al più «linea di riserva», se non concorrenziale), anche in caso di accelerazione violenta. Invece, chi della Rivoluzione conosce le dinamiche – come la capacità di ricuperare gli apparenti opposti, quali per esempio nazionalismo e internazionalismo, dialettizzandoli – la riconosce ancora meglio e, per così dire, con soddisfazione scientifica. A «Fiume» l’occasione rivoluzionaria è nazionalistica («Per alcuni di loro [gli «scalmanati», i veri rappresentanti del fiumanesimo, secondo De Felice] Fiume era il rifiuto dell’anonimo reinserimento nella società borghese dopo l’esperienza bellica, per altri l’avventura si tingeva dei colori d’una contestazione globale al sistema e, sebbene la molla iniziale fosse stata patriottica e nazionalista, la rivolta si dilatava […] fino a investire tutto l’ordine costituito»).
La Rivoluzione può non presentarsi dunque con il suo volto «normale», brutalmente materialistico, perché le sue torsioni non sono ostacolate da nessun vincolo di principio.
Così, un motivo e protagonisti (i «legionari») comunemente ritenuti «di destra» (se i termini hanno un senso, cioè, anti-rivoluzionari o addirittura contro-rivoluzionari), sebbene spuri geneticamente, sono all’origine di un episodio rivoluzionario globale, di sintesi, del quale non manca nessuno degli effetti e dei caratteri tipici. Esso si propone come officina in cui forgiare l’«uomo nuovo»; ricorre al «culto della personalità» del Comandante e alla mobilitazione panica, con i suoi rituali e liturgie politiche di massa («[…] un laboratorio politico […] di religione laica, o di sacralizzazione della politica, con tanto di culto, celebrazioni, anniversari, raduni e coreografia di folle»,); è sostanzialmente minoritario – quando si mette ai voti, è sconfitto: il plebiscito del 18 dicembre 1919 vede prevalere i fautori di un accordo, e allora i legionari rovesciano le urne e fermano lo spoglio –, anche nella fede ideologica dei legionari; scontenta la maggior parte della popolazione, che subisce l’esaltazione rivoluzionaria. Durante il suo corso, la società si impoverisce e aumenta la disoccupazione; i miliziani del nuovo regime non si esimono da rapine, furti, saccheggi: chi semina il vento del ribellismo raccoglie la tempesta della criminalità diffusa; la sfrenatezza sessuale porta con sé il dilagare delle malattie veneree. Qualcuno però, a fronte di certe parole, «corporazione», «Comune», dal sapore medievale, può essere indotto a pensare che non tutto fosse rivoluzionario a «Fiume», che ci fosse qualcosa da salvare. Ma a disilluderlo provvedono subito i protagonisti: «[…] la vernice medievale, il richiamo agli ordinamenti del vecchio Comune italiano, ci servono egregiamente per […] adombrare le audacie più bolsceviche (oh terrore di questa parola così pacifica!) col ricordo di analoghe Costituzioni del passato. È insomma un indorare la pillola». Tutta la dialettica e la dottrina dell’azione rivoluzionaria è condensata in questa frase, che può essere estesa ad altre parole d’ordine, buone altrove e in altri contesti: fratellanza, giustizia, pace, lavoro, etc.. A «Fiume» servono parole di «destra» alla Rivoluzione, che non in modo complottistico, ma per la sua stessa forza di espansione, si apre una via alternativa a quella brutalmente materialistica del comunismo. Ma, sotto questa patina, «Fiume» rimane una sintesi interessantissima – sintesi anche, se non soprattutto, nel senso da laboratorio del termine – di quel che sarà, non tanto la Rivoluzione sanguinaria, repressiva, concentrazionaria, ma quella libertaria e dissolutrice («il piacere invece del dovere», p. 204), quella di cui siamo contemporanei, ma non senza averne attraversato tutte le fasi e conosciuti tutti i motivi.
Versione della Rivoluzione che oggi è uno dei fattori della destra «di sinistra» nella sua attuale espressione più detestabile, cioè quella che non tiene, se non addirittura fa propria (magari per viltà), la degenerazione antropologica spinta dagli odierni padroni del mondo, così tradendo nel modo più indegno il suo elettorato, ma soprattutto la sua identità il bene comune.
Naturalmente, però, non ritengo che sia indifferente se a governare sia il centrodestra o la sinistra. Non solo e non tanto perché questa è più radicale, esperta e determinata nel commettere il male rivoluzionario, ma soprattutto perché in quello vi sono anche uomini (non so quanti, ma vi sono) sensibili al bene ed al vero sociali, e perché il suo elettorato (quorum ego), la scaturigine del suo consenso e quindi del suo potere, può trattenerlo, se non correggerlo, dalle sue derive rivoluzionarie, cioè può fungere da katechon, mentre quello di sinistra soffia nelle vele della rotta anti-cristiana e quindi anti-umana.
Giovanni Formicola
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Tag: formicola, governo, seconda parte
Categoria: Generale
Forse, forse… c’era una persona in Italia che temeva veramente il bolscevismo e che per la posizione che occupava aveva tutta l’autorita’ per provocare la svolta a destra di Mussolini.
Si tratta della Regina Elena, che principessa del Montenegro fu istruita a San Pietroburgo al collegio Smolny insieme alle nobili fanciulle russe. E partecipò alle feste al palazzo imperiale.
Diventata regina lo zar, prima della rivoluzione venne a trovarla anche nelle regge piemontesi di Racconigi e di Venaria. Era poliglotta la nostra regina, non lo sapeva ?
Purtroppo che il regio consorte invece…
Alzi la mano chi trova nuovo questo teatrino:
1. La politica produce continuamente facce nuove con vecchie idee
2. Il popolo elegge (con sempre più ampio astensionismo) la faccia nuova
3. L’eletto “delude” puntualmente gli elettori perdendo la faccia
4. Arriva un altro candidato “senza faccia”
Questo ripetitivo meccanismo di azione/reazione serve a mascherare la completa indolenza e rassegnazione del popolo, la sua pronunciata incapacità di formare comunità basate su solidi valori. Ci pensino altri (i politici, Dio) a sistemare le cose.
Lascio al lettore prevedere quali saranno gli esiti per il nostro Paese e il nostro popolo