L’Era delle Distopie. Neofeudalesimo o Nazismo? Andrea Zhok.

19 Novembre 2022 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione queste riflessioni del prof. Andrea Zhok, apparse su L’Antidiplomatico, che ringraziamo per la cortesia. Buona lettura, e condivisione.

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1) Rotte di collisione

L’epoca contemporanea presenta una riedizione potenziata di quel sistema di contraddizioni che ha caratterizzato il sistema capitalistico sin dagli inizi. Il problema strutturale connesso al modo di produzione capitalistico è dato dal suo carattere “monotonico crescente di tipo esponenziale”, ovvero dalla sua tendenza intrinseca ad alimentare processi di “feedback positivo”, di “interesse composto”, di crescita illimitata. Detto altrimenti: il meccanismo del capitale, vivendo in funzione del proprio incremento, tende a spingere tutti i fattori di produzione sempre costantemente in una medesima direzione, creando perciò uno squilibrio sistematico. Il sistema spinge perciò la crescita indefinita della produzione, la crescita indefinita dell’accumulazione di capitale al vertice, la crescita indefinita dello sfruttamento delle persone, la crescita indefinita dello sfruttamento della natura.

 

Questo è ciò che il vecchio linguaggio marxiano chiamava “contraddizioni del capitalismo”. Ciascuna di queste tendenze entra in sistematico conflitto con gli ordinamenti in equilibrio a livello sociale, umano, ambientale: cresce la forbice tra vertice e base della piramide sociale, cresce sia il consumo che lo scarto delle risorse, cresce la liquefazione degli organismi collettivi (famiglie, comunità, stati, ecc) e delle identità personali. Mentre il mondo e la vita possono essere concepiti sul modello organico dei sistemi a “retroazione negativa”, che ripristinano e correggono le rotture dell’equilibrio, il capitalismo opera come una proliferazione illimitata ed incontrollata, letteralmente come un cancro ontologico.

Storicamente, visto che il primo a comprendere la natura del problema fu Marx, si associa questa consapevolezza alla ricerca di soluzioni “anticapitalistiche”, socialiste, comuniste o simili. L’idea dunque è spesso che il “popolo” debba essere il primo soggetto di pertinenza di queste analisi. Questa visione trascura un dato di realtà: a prendere massimamente sul serio le analisi marxiane e postmarxiane sono da tempo i detentori del potere all’interno del sistema, fortemente preoccupati di ciò che può minarne la posizione: ad occuparsi principalmente dei problemi del capitalismo sono oggi i capitalisti, i “padroni del vapore”.

 

 

2) I “padroni del vapore”

Quando si parla genericamente di “capitalisti”, “oligarchie”, “èlite”, ecc. è inevitabile suscitare il sospetto di un’eccessiva vaghezza dei referenti. Chi si intende? Si vorrebbe poter additare con nome e cognome il soggetto del potere come si poteva fare nel mondo premoderno indicando il re, il papa, l’imperatore, questo feudatario, quel cortigiano, ecc. Oggi però fare dei nomi è una falsificazione della realtà. Per quanto le persone contino, il sistema ha un’elevata capacità di sostituzione dei suoi membri ad ogni livello, vertice incluso. Sapere chi è l’amministratore delegato di BlackRock o Vanguard non ci porta più vicini ad una comprensione di chi esercita il potere, perché non è come individui specifici che svolgono le proprie funzioni.

 

Un altro errore in cui non bisogna cadere è quello – alimentato dall’ideologia del potere stesso – di supporre che l’esistenza di una pluralità di “padroni del vapore” e non di un singolo “imperatore” garantisca in qualche modo una diversificazione di interessi e progetti, e con ciò una qualche “democraticità” al sistema (es.: “l’esistenza di capitalisti diversi implica padroni di testate giornalistiche diversi e dunque pluralità dell’informazione”). Questa è una grave ingenuità. Il giorno in cui l’amministratore delegato di BlackRock dovesse riscoprirsi l’animo zapatista e la brama di sostenere la liberazione del Chiapas, cesserebbe di essere amministratore delegato e verrebbe sostituito (con buonuscita, beninteso). Le linee di fondo non possono cambiare ed esse hanno un unico obiettivo indefettibile: la perpetuazione del potere di chi lo detiene. Non bisogna neanche fissarsi su una specifica ortodossia “capitalista”. Le oligarchie finanziarie non sono “capitaliste” per amore ideale del capitalismo: non è una religione alternativa. Semplicemente quella è la forma in cui si trovano a detenere il potere. Se lasciando cadere questo o quell’altro aspetto ideologico si favorisce la conservazione e il consolidamento del potere, nulla osta a farlo.

 

Ma alla fine chi sono questi “padroni del vapore”? La concentrazione contemporanea di potere è qualcosa di inedito nella storia: qualche centinaio di persone tengono le redini dei maggiori gruppi finanziari mondiali (angloamericani) e di ciò che Eisenhower chiamò il “complesso militare-industriale” americano. Questi gruppi hanno tutte le leve di potere fondamentali, sono in grado di orientare le decisioni politiche negli stati che li ospitano (USA in primis) e a cascata in tutti gli stati ad essi subordinati, o con essi indebitati. Non esistono esattamente contropoteri simili al di fuori del mondo occidentale, nella misura in cui riesca a sottrarsi all’influenza del primo, giacché altrove il potere, anche quello più inflessibile, è comunque dominato da istanze di matrice politica (nazionalismo in primis).

 

 

Queste élite apicali occidentali sono compattate dalla motivazione del mantenimento di un potere a base economica ed hanno capacità di coordinamento immensamente superiori a qualunque altro gruppo d’interesse: essi hanno luoghi e modi di incontro istituzionali e non, hanno risorse tali da consentire una pluralità di accordi e comunicazioni per vie molteplici, ufficiose o clandestine.

 

Chi si aspetta di trovare l’elenco dei regnanti e degli eredi al trono per poter progettare l’assalto al “Palazzo d’Inverno”, e in mancanza di questa lista preferisce derubricare il problema a congetture o teorie del complotto, è purtroppo complice inconsapevole del potere.

 

Sono rari i soggetti delle élite apicali che cercano la prominenza pubblica, e quelli che lo fanno sono quei pochi, vittime dei propri stessi ideologismi, che si sono convinti di svolgere operazioni “paternalisticamente redentive” (i soliti nomi che girano di Schwab, Soros, Gates, ecc.). I più intelligenti tra loro sanno bene che il loro potere non passa attraverso il consenso pubblico, e dunque che palesarsi non li rafforza, ma li espone e indebolisce.

 

Ci troviamo dunque di fronte al seguente quadro: un gruppo ristretto di soggetti, avendo ottenuto un posizionamento eminente all’interno del capitalismo contemporaneo, detiene il potere con livelli di concentrazione mai esistiti prima, e si muove e coordina (al netto delle particolarità personali) avendo come fine il mantenimento e consolidamento di tale potere. Al tempo stesso, questo gruppo apicale ristretto ha perfetta consapevolezza delle tendenze critiche implicite nel sistema di cui è al vertice. Dobbiamo smettere di immaginare il capitalista come un viveur che si trastulla tra sex toys, yacht e vini prestigiosi. A muoversi su questo orizzonte edonistico sono tipicamente soggetti di medio cabotaggio, nuovi ricchi. Il capitale consolidato (“old money”) forgia tipi umani diversi, che o hanno una formazione adeguata a comprendere i problemi del sistema, o sono adusi a pagare think tank che svolgono questo lavoro per essi.

 

 

 

3) Le prospettive delle élite apicali

Ciò che dobbiamo mettere perciò in primo piano è l’assunto che le linee di contraddizione interna al sistema del capitale sono perfettamente note ai “padroni del vapore”. Sono solo i loro garzoni di bottega liberisti che continuano a creare cortine di fumo a colpi di “mercato perfetto”, “equilibri generali a lungo termine” e altre besuaggini. Questa manovalanza intellettuale, finanziata prodigalmente, occupa spesso posti accademici prestigiosi, ed ha la funzione di fornire una spessa nebbia ideologica, vecchia di cent’anni, su cui far disperdere le energie della critica. Si tratta di una difesa di fanti di prima linea che si agitano per tenere la mira degli avversari lontana dal vero fronte. I più sono troppo stupidi per sapere di avere una mera funzione di bersaglio fittizio.

 

Che l’accelerata sostituzione dei lavoratori con macchinari crei uno strutturale scompenso nel sistema produttivo, con un’eccedenza di prodotto potenziale rispetto al consumo, e un eccesso di domanda impotente (consumatori senza potere d’acquisto) rispetto ad un’offerta debordante, è del tutto evidente e pacifico.

 

Che ciò configuri l’esistenza di una vasta popolazione superflua, esagerata per essere utile come “esercito di riserva del capitale”, una moltitudine di bocche da sfamare e di scontenti in ebollizione è altrettanto evidente.

 

Che un sistema a crescita infinita finisca per minare l’intero sistema, ambientale e sociale, in cui viviamo è altrettanto chiaro.

 

Le linee di frattura primarie che cadono sotto l’attenzione delle élite sono dunque: 1) frattura sociale (rischio di rivolte); 2) frattura ecologica (rischio di destabilizzazione degli equilibri ambientali); 3) frattura finanziaria (collasso terminale delle aspettative di crescita e con ciò dei presupposti del sistema).

 

L’errore degli eredi della prima linea di analisi critica, quella marxista, è di pensare che il riconoscimento di queste tendenze comporti di per sé l’adesione ad una prospettiva di “superamento del capitalismo”, con la ricerca di forme sociali che rifuggano dalla disumanizzazione, dall’alienazione, che ripristinino un sistema in equilibrio (“da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”).

 

Questa è un’altra grave ingenuità. Le élite apicali del sistema contemporaneo conoscono le contraddizioni del sistema, ma questo non significa affatto che intendano abbandonarlo. Non c’è niente di strano in ciò, nessun blocco di potere nella storia ha mai lasciato il potere spontaneamente. Il punto qui è comprendere bene quali sono le prospettive che si aprono nell’ottica di questo potere, in quanto ciò ci può mostrare lo spettro dei rischi sotterranei nell’epoca contemporanea (quei rischi che spesso finiscono espressi confusamente, e perciò screditati, nella forma di “teorie del complotto”.)

 

 

 

3.1) Prendere tempo con soluzioni di mercato

La prima prospettiva è la meno radicale e la più debole, ma è anche quella che può venire dichiarata apertis verbis senza remore. Si tratta di far passare l’idea che per ogni problema esiste in potenza una risposta che soluzioni tecnologiche sul mercato saranno in grado di fornire. Questa idea viene proposta ai quaquaraquà dei media come se fosse un’opzione realistica, mentre di fatto serve solo a dilazionare alcuni processi, consentendo intanto ulteriori accumuli di capitale. Così viene fatto balenare di volta in volta sui media a gettone la prospettiva salvifica delle auto elettriche, o dell’energia nucleare, o dell’euro 7, ecc. per rispondere ad un singolo e attentamente selezionato problema ambientale (riscaldamento globale?). Con questa attenzione selettiva si dà l’impressione che si tratti di risolvere sempre un solo problema preminente, rendendo plausibile la ricerca di soluzioni tecniche; ciò permette di prendere un po’ di tempo in un settore, di distrarre l’attenzione pubblica fornendo una speranza, e di indirizzare le politiche pubbliche in modo profittevole.

 

Naturalmente queste operazioni settoriali, condividendo la spinta strutturale alla perenne innovazione e al perenne incremento produttivo, continuano ad alimentare il processo di destabilizzazione sistemica. Nel migliore dei casi soluzioni tecnologiche ad hoc possono tappare provvisoriamente una falla, mentre contemporaneamente ne vengono aperte altre dieci in forma di esternalità sistemiche.

 

3.2) Guerra come igiene del mondo

La seconda prospettiva è una linea di soluzione classica, di maggiore radicalità, che consente di circoscrivere provvisoriamente i danni lungo diverse linee di frattura. Quando si riesce a fomentare una guerra, essa rappresenta, almeno con riferimento ai paesi coinvolti, una soluzione efficace, in quanto simultaneamente: irreggimenta le popolazioni, bloccando la protesta sociale; crea un’area di consumo frenetico (e dunque di rendita del capitale) senza bisogno di conferire potere d’acquisto alla popolazione; rallenta gli altri processi sociali, riducendo la “impronta ecologica” umana, e nel migliore dei casi riduce anche la popolazione. Questa soluzione funziona idealmente tanto meglio quanto più paesi sono coinvolti. Se un conflitto ha carattere militarmente molto circoscritto, non ci sarà un’incidenza sulla numerosità della popolazione, ma sarà comunque efficace sotto gli altri aspetti (irreggimentazione e disciplinamento sociale + drenaggio economico in un “potlatch” postmoderno, dove vaste risorse vengono bruciate per muovere la macchina dei consumi).

 

Una guerra mondiale durevole e a basso voltaggio sarebbe in effetti una soluzione perfetta: essa consentirebbe idealmente: 1) di abbattere ogni resistenza o rivolta sociale nel nome della santa opposizione al nemico esterno, 2) di concentrare le energie in una produzione infinita rivolta ad un consumo infinito, che ignora ogni saturazione di mercato; 3) di ridurre progressivamente la popolazione.

 

Tuttavia questa prospettiva è altamente instabile e non facile da manipolare neppure per le élite apicali, per quanto potenti. Provocare un certo numero di conflitti in aree già in sofferenza e politicamente deboli è relativamente facile, ma una condizione di guerra mondiale durevole e a basso voltaggio non è direttamente orchestrabile, e rischia continuamente o di spegnersi, o di creare un’escalation nucleare, in cui finirebbero per essere coinvolti in qualche misura anche le élite apicali.

 

 

3.3) Società del controllo

La terza prospettiva è da tempo manifesta e si concentra tutta su una trasformazione del modello ideologico liberale in un modello autoritario, senza cambiarne di una virgola l’apparenza. La società contemporanea occidentale (ma non solo occidentale) è più normata, legificata e sorvegliata di qualunque altra società della storia. Non solo esistono rispetto al passato più leggi, e più dettagliate, su aree di comportamento che nel mondo premoderno non erano oggetto di attenzione legislativa, ma la capacità tecnologica accresciuta consente livelli di implementazione e controllo di questa norme assolutamente inediti.

 

Posto che ogni potere ha un incentivo intrinseco ad aumentare le proprie capacità di controllo, nel mondo liberale ciò avviene in modo paradossale, sulla scorta della pretesa di operare per una “promozione della libertà”. Per poter trasformare un’ideologia della libertà in ideologia del controllo il neoliberalismo fa sistematicamente leva sull’idea di “vittimizzazione” o “vulnerabilità”  di un gruppo. Una volta scelto un certo gruppo come potenzialmente offeso, violato nei propri diritti naturali o umani, si può procedere con atti coattivi nel nome delle “vittime”, magari per prevenirne la potenziale vittimizzazione. Questo meccanismo può essere fatto funzionare tanto all’interno di un paese che all’esterno. Si può intervenire coattivamente sulla libertà di espressione con la scusa di “tutelare la sensibilità” di questo o quel gruppo, si può intervenire con medicalizzazioni coatte (o certificati verdi) per “tutelare i fragili”, esattamente come si può intervenire come “polizia internazionale” per “difendere i diritti umani” in questa o quell’area del mondo. La stessa logica consente di disseminare di telecamere di sorveglianza qualunque luogo pubblicamente accessibile o di violare ogni comunicazione privata nel nome di una “tutela della sicurezza”, ecc.

 

È importante essere allertati del fatto che oggi le tecnologie di controllo disponibili sono straordinariamente sofisticate e che una volta rotto l’argine della giustificazione legale le capacità di sorvegliare (e sanzionare) sono pressoché illimitate.

 

L’interesse delle élite apicali per un sistema totale di sorveglianza, controllo e sanzione è autoevidente. Esso viene e verrà sempre presentato come operazione di “difesa del vulnerabile”, mentre di fatto è un modo per bloccare alla radice la possibilità che chi non ha il potere diventi una minaccia per chi lo ha.

 

 

3.4) Depopolamento

Mentre sorveglianza e controllo possono disinnescare il pericolo rappresentato dal malcontento delle masse (malcontento che finché è a basso livello può essere contenuto con semplici sistemi di distrazione e intrattenimento), il problema rappresentato dall’eccedenza di popolazione economicamente “inutile e dannosa” richiama un’altra tentazione, che non deve essere sottovalutata semplicemente perché suona “scandalosa”. Paesi privi di un impianto ideologico liberale, come la Cina, possono permettersi di trattare questioni di controllo demografico in modo esplicito, come è accaduto con la “politica del figlio unico”. Nell’Occidente liberale questa possibilità di trattazione aperta è preclusa in quanto richiederebbe di mettere in primo piano problemi imbarazzanti (a partire dai “consumi vistosi”) per le élite. Ma questo non significa che la tentazione di intervenire dall’alto non sia ben presente.

 

Su questo tema è impossibile andare al di là di congetture e illazioni, ma sottovalutare la tentazione di un utilizzo clandestino di soluzioni tecnologiche per limitare la fertilità o per incrementare la mortalità (preferibilmente per i soggetti non più in età lavorativa) sarebbe sbagliato.

 

3.5) Neofeudalesimo o nazismo 2.0?

Tutte le “soluzioni” precedenti rimangono all’interno della cornice capitalista, con i suoi meccanismi e le sue contraddizioni interne. Questo significa che, in buona sostanza, si tratta sempre di spinte miranti a guadagnare tempo rallentando certi processi, o rimettendo indietro le lancette dell’orologio storico. Una soluzione radicale di uscita dal modello capitalista da parte del potere capitalista è immaginabile solo con la promessa di cristallizzare i rapporti di potere correnti (un’uscita in direzione di una democrazia socialista non risulta perciò particolarmente gettonata).

 

In una cornice di capitalismo finanziario come quella contemporanea le concrezioni di potere possono essere labili, perché una certa capitalizzazione dipende innanzitutto da aspettative di consumo. Chi detiene grandi liquidità possiede un potere d’acquisto potenziale che dipende integralmente dalle prospettive di disponibilità dei beni e dalla fiducia pubblica nei titoli di credito. Questo potere è lo stesso esercitato da una banconota, un oggetto virtuale che può divenire carta straccia nel momento in cui non la si ritenesse più capace di mediare la fornitura di beni. Per questo motivo, per la necessità di curarsi delle apparenze, delle aspettative, il capitalismo finanziario deve dedicare particolare attenzione al governo degli apparati mediatici. Ma in ogni caso, ci sono limiti al governo delle aspettative, giacché i meccanismi stessi di competizione economica generano costantemente sommovimenti destabilizzanti.

 

Nel mondo capitalista il potere “liquido” è assai più potente (grazie alla sua massima mobilità e trasformabilità) di ogni potere “solido” (la proprietà di beni reali). Tuttavia i beni reali conferiscono una stabilità di lungo periodo che il capitale liquido non consente. Perciò la prospettiva di un’eventuale uscita “post-apocalittica” dal modello capitalista con le sue contraddizioni è pensabile, per le élite apicali, solo nei termini di un passaggio ad una sorta di “neofeudalesimo”, in cui il potere liquido si ritramuta in proprietà materiali (terre, immobili, armamenti, tecnologie, ecc.).

 

Emerge qui tuttavia un problema che modifica completamente il quadro. Il feudalesimo storico funzionava sulla base di un sistema di legittimazione (inclusa la legittimazione alla proprietà) dipendente dalla tradizione e dalla religione. Il mondo odierno ha spazzato via entrambi questi fattori come conferitori di legittimità. Dunque la questione che qui si apre è: come potrebbe funzionare un sistema di potere e di legittimazione della proprietà in un “neofeudalesimo” privo di tradizione e di religione?

 

Il potere nella storia dell’uomo è stato sempre, anche nelle culture più autoritarie, determinato dal riconoscimento medio della legittimità del potere. Finché i più riconoscevano o almeno non contestavano la legittimità di un potere, esso rimaneva fungente. Questo potere funzionava trasmettendosi con continuità, per passaggi intermedi, dal vertice alla base (dal re ai vassalli, dai feudatari ai cavalieri ai contadini ai servi.) Questa forma di potere ha dunque comunque sempre un aggancio umano, nella sfera del riconoscimento. Ma se viene meno la matrice stessa della legittimazione, come può esercitarsi il potere in modo capillare, dal vertice alla base? In un sistema capitalistico la ricchezza è potere senza necessità di riconoscimento perché si riconosce il potere come potere d’acquisto, garantito dal sistema economico. Se salta il sistema, salta quella forma di riconoscimento di potere impersonale. Come potrebbe funzionare un nuovo potere senza riconoscimento di legittimità?

 

Tecnicamente la risposta è semplice: dovrebbe soppiantare il potere del “mezzo” rappresentato dal denaro con un altro mezzo esterno adeguato allo scopo. In concreto la prospettiva più plausibile è che ciò avvenga con la manipolazione di mezzi atti ad incutere paura, una paura che i pochi devono essere in grado di instillare direttamente nei molti.

 

Una prospettiva del genere era inaccessibile in passato, ma il progresso tecnologico nutre da tempo costantemente questa possibilità, cioè la possibilità, attraverso il potenziamento degli effetti, che un centro circoscritto si imponga alla moltitudine. Una spada poteva imporsi magari a cinque persone disarmate, una pistola a dieci, una bomba a mille; e con l’aumentare tecnico del potere è diminuita anche la difficoltà a usarlo: è più facile oggi far scoppiare una bomba che un tempo maneggiare una spada. Ma non dobbiamo immaginare la potenza tecnologica semplicemente come esercizio della forza bruta. Pensiamo piuttosto ad una situazione attuale come l’esistenza di sementi geneticamente modificate che non permettono di ripiantare i loro semi per il raccolto successivo, vincolando all’acquisto delle sementi stesse da un fornitore centrale. Le linee di fondo di questo meccanismo di potere è semplice: si tratta di rendere strutturalmente dipendente un gruppo, per la propria stessa esistenza, dall’accesso ad una tecnologia non autonomamente riproducibile, ma somministrata centralmente. Di meccanismi del genere se ne possono inventare numerosi, basta rendere le persone dipendenti da un bene tecnologicamente scarso e non riproducibile autonomamente (una terapia?). Un meccanismo del genere può consentire di principio un esercizio del potere in forma diretta, “neofeudale”, senza bisogno di meccanismi di intermediazione e legittimazione.

 

Un’osservazione conclusiva: parlare qui di “neofeudalesimo” è un’espressione fuorviante. Siamo di fronte ad un sistema in cui, sì, avremmo a che fare con una società gerarchica chiusa, come il feudalesimo, fondata su poteri e proprietà reali, e non liquidi, ma tutti gli altri aspetti sono profondamente diversi e non in senso migliorativo. Sarebbe un mondo in cui una casta superiore esercita il proprio potere attraverso la paura, dopo aver sostituito, come fonte ultima di autorità, ciò che nel feudalesimo era Dio, con la Tecnologia. Sarebbe una società del comando diretto, non intermediato da alcuna adesione ideologica,  una società che venera l’efficienza tecnica e concepisce la subumanità al di fuori della casta superiore come materia prima di cui disporre a piacimento.

 

Questo quadro in effetti non ricorda il feudalesimo, ma un’esperienza a noi molto più vicina, cioè il nazismo. Il nazismo, infatti, al di là delle proprie tinteggiature esoteriche e paganeggianti, era essenzialmente venerazione della forza diretta, attribuita ad una casta superiore, ed esercitata con rigorosa efficienza produttivistica, concependo l’uomo stesso come mezzo manipolabile (eugenetica) o risorsa asservibile (KZ).

 

Potremmo così scoprire un bel dì che quella dozzina di anni in cui il nazismo ha fatto la sua breve e ingloriosa comparsa nella storia sono stati solo la prima sperimentazione di istanze e tendenze destinate ad acquisire tutt’altra solidità un secolo più tardi.

 

Andrea Zhok

 

Professore di Filosofia Morale all’Università di Milano

 

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