Brasile: ha vinto Lula ma anche, e forse soprattutto, Bolsonaro. TFP.
3 Novembre 2022
Marco Tosatti
Carissimi StilumCuriali, mi sembra opportuno portare a vostra conoscenza questo articolo di Julio Loredo, che ringraziamo per la cortesia, pubblicato da Tradizione Famiglia Proprietà. Buona lettura.
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di Julio Loredo
Il giornale Le Monde ha parlato di “retour spectaculaire”, un ritorno spettacolare. Si riferiva alle recenti elezioni brasiliane, vinte di misura dal candidato marxista Luis Inácio “Lula” da Silva contro il candidato del centro-destra Jair Bolsonaro. Si è infatti trattato di un retour: Lula è riuscito a passare dalla prigione (condanna per corruzione) alla poltrona di Presidente, che occuperà per la terza volta. Visto con serena oggettività, però, questo retour è molto meno spectaculaire di ciò che sembra. E, soprattutto, apre uno scenario politico tutt’altro che favorevole alla sinistra. Se a qualcuno deve essere applicato l’aggettivo spectaculaire, questo è Bolsonaro.
Tutti per Lula
La spettacolarità di un’impresa si misura dallo sforzo impegnatovi e dall’importanza degli ostacoli che si è riusciti a vincere. Ancora oggi, ad esempio, ci meravigliamo per le antiche avventure della conquista del Polo Nord o dell’Africa centrale, intraprese con scarsi mezzi tecnologici da coraggiosi esploratori che spesso ci rimettevano la vita. Ci vuole poco coraggio, però, quando si ha tutto dalla propria parte e gli ostacoli vengono spianati da mani amiche.
Mai nella storia del Brasile, e forse dell’America Latina, si era vista una campagna tanto imponente quanto quella che si è mossa in sostegno al candidato del Partito dei Lavoratori (PT). Con poco margine di esagerazione, possiamo dire che Lula aveva a favore tutti e tutto.
Papa Francesco. Il corteo dei fan di Lula si apre nientemeno che con Papa Francesco. Non appena uscito dalla prigione, dove era stato condannato in modo definitivo per corruzione, il Pontefice ha accolto Lula in Vaticano, dandogli una benedizione che molti hanno visto come una consacrazione. La foto di Francesco che segnava con la croce la fronte del futuro candidato – quasi come conferendogli un mandato – è stata utilizzata quale potentissimo spot elettorale: Lula sarebbe “il candidato del Papa”. Possiamo ben immaginare il peso politico di tale spot in un Paese ancora maggioritariamente cattolico. Tanto più che dal Vaticano non è giunta alcuna dichiarazione che smentisse, o almeno ridimensionasse, tale interpretazione del gesto papale.
All’appoggio personale si somma poi il favoreggiamento delle forze politiche che formano la sinistra brasiliana, il bacino elettorale di Lula, a cominciare dal Movimento dei Senza Terra (MST), di matrice marxista ed eversiva. In ben due occasioni Francesco ha accolto in Vaticano l’incontro internazionale dei cosiddetti “Movimenti popolari”, organizzati dall’argentino Juan Grabois e dal brasiliano João Pedro Stédile, capo del MST, dichiaratamente comunista, ricevuto più volte da Francesco. Per la propaganda è stato facile presentare questo e altri gesti del Pontefice come un appoggio al PT quasi fosse “il partito del Papa”, di nuovo senza che dal Vaticano giungesse una smentita.
Una delle accuse che Bolsonaro ha dovuto affrontare di continuo durante la campagna elettorale è stata precisamente quella di essere “contro il Papa”. Accusa facilmente confutabile dal punto di vista dottrinale (il Papa non è infallibile in politica, ecc.), ma molto appiccicosa in mezzo al frastuono di una campagna politica, dove spesso conta più l’impatto propagandistico che non i contenuti ideologici. Pericolosa poi in un Paese dove la popolazione più umile, a volte scarsamente versata su temi politici, si lascia guidare dall’opinione del parroco locale.
I Vescovi. La simpatia di Papa Francesco si riflette poi nel fermo sostegno di tanti vescovi a Lula e al PT. L’episcopato brasiliano è composto, in maggioranza, da ciò che Plinio Corrêa de Oliveira chiamava i “vescovi silenziosi”: non parlano, non si pronunciano, non si sbilanciano… ma lasciano il campo aperto alla minoranza ultra-progressista, allineata con la cosiddetta Teologia della liberazione, che in pratica controlla la CNBB (Conferenza nazionale dei vescovi) e, con essa, la vita stessa della Chiesa in Brasile.
Con rare eccezioni, l’immensa macchina della CNBB – parrocchie, comunità religiose, consigli pastorali e missionari, comunità ecclesiali di base, movimenti, case editrici e via dicendo – si è impegnata a fondo nella campagna elettorale in favore di Lula, presentato come “il nostro candidato”, o “il candidato cristiano”. Nel confessionale, molti sacerdoti hanno consigliato di votare per Lula. Molte omelie si sono trasformate volentieri in discorsi elettorali in suo favore. Molti fogli parrocchiali sono sembrati manifesti del PT. Molte riunioni di preghiera hanno nascosto comizi petisti. L’Ordine francescano ha fatto outing ufficiale in favore di Lula.
I pochi coraggiosi sacerdoti che hanno osato uscire dal coro, invece, hanno corso il rischio di essere sanzionati. Allo stesso modo, le rarissime voci episcopali discordanti sono cadute nel vuoto.
L’appoggio dell’episcopato a Lula ha raggiunto un apice con la pubblicazione di un manifesto firmato da ben cinquanta presuli che, senza fare i nomi, condannava il candidato “capitalista” e “autoritario” mentre esaltava quello “democratico” “impegnato nella difesa dei poveri”. Citando Papa Francesco, i vescovi affermavano che un cattolico non può votare per uno che difende un’“economia che uccide” (cioè Bolsonaro). Il documento assomigliava quasi alla scomunica comminata da Pio XII per chi avesse votato il Partito comunista, applicato però alla parte opposta.
In un altro manifesto, pubblicato poco prima delle elezioni, dieci vescovi e quattrocento sacerdoti accusarono Bolsonaro di aver profanato il Santuario nazionale di Aparecida, perché si era permesso di assistere a un Rosario pubblico: “Jair Bolsonaro non è religioso”.
Teologia della liberazione. Tutto ciò è conseguenza della grande penetrazione che ha avuto in Brasile la Teologia della liberazione, definita dai suoi stessi alfieri un tentativo di introdurre il marxismo nella teologia, puntando allo stabilimento del comunismo e del socialismo, identificati col Regno di Dio sulla terra. Condannata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, questa teologia è stata “sdoganata” da Francesco, che l’ha fatta “parte della vita della Chiesa”, secondo quando dichiarava l’allora portavoce della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi.
Lula è figlio del movimento della Teologia della liberazione. Il PT è stato fondato in un convento di suore sotto l’egida di teologi della liberazione, che hanno sempre costituito la spina dorsale del partito. Lo stesso Lula ha più vole dichiarato che deve la sua carriera politica alla Teologia della liberazione e alle Comunità ecclesiali di base (CEB) da essa ispirate. Dopo alcuni anni di letargo, le CEB sono risuscitate sotto Papa Francesco, che non manca di inviare un messaggio amichevole in occasione dei loro convegni annuali.
Il Supremo Tribunale Federale (STF) e il Supremo Tribunale Elettorale (STE). Non bastasse lo schiacciante appoggio ecclesiastico, Lula ha potuto contare su quello – non meno decisivo – della Giustizia brasiliana, per lo più composta da Magistrati nominati dallo stesso PT durante i 14 anni in cui ha già governato il Paese. La sua stessa partecipazione alle elezioni presidenziali si è dovuta a un intervento a gamba tesa del Supremo Tribunale Federale (STF), che nel 2019 ha annullato la condanna per corruzione – pur confermata in secondo grado – portando quindi alla sua scarcerazione.
Guidato dal Presidente, Alexandre de Moraes – che si definisce “veramente comunista e rivoluzionario” – il STF è intervenuto pesantemente contro Bolsonaro. Con una serie di decisioni monocratiche, de Moraes in pratica ha smantellato la macchina propagandistica che sosteneva Bolsonaro, ordinando la chiusura di decine di canali YouTube, blog, pagine Facebook, account Twitter, TikTok e via dicendo. Con metodi che ricordano quelli del KGB in epoca sovietica, de Moraes ha ordinato la perquisizione degli uffici e delle residenze dei sostenitori di Bolsonaro, confiscandone le atrezzatture elettroniche. Molti sono finiti in carcere, altri in esilio. De Moraes è giunto all’assurdo di chiudere in Brasile le operazioni della piattaforma messaggistica Telegram, la preferita dei conservatori.
Sbandierando un decreto giudiziario contro le “fake news”, de Moraes ha rivendicato per sé il diritto di decidere sui contenuti dei messaggi elettorali: solo lui poteva decidere quale notizia era “true” e quale invece “fake”. Ovviamente, quelle che favorivano Lula erano tutte “true”, mentre quelle che portavano acqua al mulino di Bolsonaro erano “fake” e andavano quindi rimosse. Una nota rivista ha pubblicato una caricatura del Magistrato nei panni del Re Sole, con la dicitura “la démocratie c’est moi”.
De Moraes ha ordinato pure la rimozione dalla rete di molti video di Bolsonaro, per esempio uno in cui il candidato piangeva mentre parlava della figlia di 12 anni. Secondo il Magistrato, il video “manipolava i sentimenti”… Il colpo di grazia è arrivato nelle ultime settimane della campagna elettorale. De Moraes ha imposto la censura all’unica Radio rimasta independente, la Jovem Pam, proibendole di toccare certi temi e di menzionare certe persone. È stata la fine della libertà di stampa in Brasile, e con essa la fine della vera democrazia.
La persecuzione giustizialista contro Bolsonaro ha raggiunto risvolti degni di una novella di Franz Kafka. Per esempio, una nota azienda di alcolici aveva sul mercato un prodotto al prezzo di 22 reais. Ebbene, il TSE le ha intimato di cambiarlo, giacché 22 era il numero della scheda elettorale di Bolsonaro…
La stampa. A differenza dell’Italia, dove c’è un ampio parterre di testate giornalistiche, canali televisivi e stazioni radiofoniche, che offrono un ventaglio di posizioni ideologiche e politiche, in Brasile la stampa è nella quasi totalità controllata dalla sinistra e, ovviamente, faceva il tifo per il candidato del PT. Per sfuggire al monopolio della sinistra, lungo gli anni il centro-destra ha creato una rete pubblicitaria alternativa, tutta fondata su internet. Questa rete ha raggiunto dimensioni considerevoli. Alcuni commentatori conservatori hanno milioni di follower. Un video conservatore facilmente raggiunge 4-5 milioni di visualizazzioni. Proprio questa rete è stata smantellata dal STF e dal STE, privando così Bolsonaro di buona parte della sua macchina propagandistica.
Trascuro l’appoggio, a dir poco strano, che Lula riscuote da parte di grandi imprenditori, pronti a sacrificare principi e convinzioni pur di guadagnare soldi sulla scia del clientelismo petista. Non è un caso che il candidato del PT abbia vinto in alcuni dei quartieri più ricchi di San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Trascuro pure l’appoggio degli organismi internazionali, come l’OEA (Organizzazione degli Stati Americani).
L’exploit di Bolsonaro
Possiamo dunque dire che Lula aveva a favore tutti e tutto, in casa e all’estero. Era tale la schiacciante superiorità della gioiosa macchina da guerra lulista, che tutti i sondaggi davano il candidato del PT vincitore al primo turno, con margini che sfioravano il 60%. Era matematicamente impossibile che Bolsonaro vincesse. Eppure, Bolsonaro ha costretto Lula al ballottaggio, perdendo poi per meno del 2%, al netto di eventuali frodi, molto facili da commettere col sistema di voto elettronico. Infatti, Bolsonaro ha ottenuto questa volta sette milioni di voti in più del 2018.
La delusione della sinistra è iniziata già al primo turno. Lula è rimasto inchiodato al 48,3%, molto lontano dal 60% prospettato da alcuni sondaggi. Non solo. Il centro-destra ha stravinto a livello nazionale. Il Partito Liberale di Bolsonaro è riuscito a eleggere l’80% dei suoi candidati al Senato e il 70% alla Camera. Il centro-destra adesso ha una maggioranza di ben 194 deputati, contro appena 122 della sinistra. Al Senato il centro-destra conta con una maggioranza di tredici senatori. Il Parlamento uscito dalle urne è, forse, quello più schierato a destra della storia repubblicana del Brasile.
Lo stesso si può dire delle elezioni regionali. Ricordiamo che il Brasile è una repubblica federale, come gli Stati Uniti. Le Regioni hanno un’ampia autonomia legislativa, finanziaria e anche militare. Ebbene, i partiti del centro-destra hanno vinto nel 75% delle Regioni, perfino strappando al PT alcuni roccaforti. Mai nella storia recente del Brasile si era configurato un quadro politico regionale più schierato a destra.
In conclusione, analizzando le recenti elezioni brasiliane con serena oggettività, e senza nulla togliere al disastro che significa un presidente marxista, possiamo dire che, pur avendo perso il Governo Federale, il risultato ottenuto da Bolsonaro costituisce un vero e proprio exploit.
Il “bolsonarismo”
Un blog conservatore ha così sintetizzato la situazione: Bolsonaro ha perso, il “bolsonarismo” rimane.
Jair Messias Bolsonaro è solo la punta dell’iceberg di una vasta e profonda reazione conservatrice che, già da qualche anno, si fa sentire sempre più forte in Brasile, e sulla quale abbiamo più volte scritto. Gli studiosi identificano le radici di tale reazione nel lavoro anticomunista pluridecennale svolto dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira e dall’associazione da lui fondata: la TFP. Fu proprio il leader cattolico a denunciare per primo la Teologia della liberazione nel 1973. Come fu pure il primo ad allertare contro l’azione rivoluzionaria della CNBB nel 1968. Fu anche il primo a portare avanti una campagna ideologica contro il candidato Lula nel ballottaggio del 1990, poi vinto dal conservatore Fernando Collor de Melo. Questo ingente sforzo, alla radice dell’attuale reazione conservatrice, è oggi l’oggetto di numerosi studi accademici.
A lungo latente, questo fenomeno – che mobilita il Brasile profondo in modi che la propaganda rivoluzionaria non sempre riesce a controllare – ha iniziato a prendere forma nelle manifestazioni contro il regime petista di Dilma Rousseff nel 2014. Dalla protesta contro alcuni provvedimenti del Governo, si è passati poi alla contestazione dell’ideologia che ne era alla base: il socialismo. Sono così iniziate le oceaniche manifestazioni popolari che, man mano, hanno assunto un carattere nettamente anticomunista. “Il Brasile non sarà mai rosso!”, era lo slogan che le animava. Il fenomeno – anch’esso oggetto di numerosi studi accademici – eccede di molto l’ambito politico, costituendo in realtà un movimento di natura religiosa, morale, ideologica e culturale. E – grande sorpresa – attira soprattutto le generazioni più giovani.
Questo movimento, chiamato in modo riduttivo e assai fuorviante “bolsonarismo”, è vivo e vegeto. Anzi, è in forte espansione e ha dimostrato di poter tenere testa al mondo intero. L’aver perso per meno del 2%, contro tutti e contro tutto, gli darà ancor più forza, spronandolo a imprese sempre più audaci. Ecco la grande novità di queste elezioni.
A Lula vanno le grane del Governo Federale, ostacolato dal Congresso e da Regioni ostili. A Bolsonaro vanno le glorie dell’opposizione. Se il leader liberale capirà che egli non è solo un capo politico, bensì il punto di convergenza di un movimento che ha la vocazione di diventare una vera e propria Contro-Rivoluzione, specie se accetterà di accogliere la Grazia divina, allora il Brasile potrà sperare. Se invece il “bolsonarismo” si arenerà nelle palludi della micro politica e dei tradimenti tanto in voga nella vita pubblica, allora qualcun’altro prenderà lo scettro e porterà avanti la reazione.
Spetta a noi cattolici rivolgerci alla Madonna Aparecida, Patrona del Brasile, affinché preservi questo Paese – chiamato originariamente Terra della Santa Croce – dalle grinfie del comunismo.
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Categoria: Generale
In Italia ci sarebbero testate giornalistiche con ampio spazio ed In Brasile, invece, la stampa sarebbe solo di sinistra? Forse, io vivo in Brasile e non me n’ero accorta….