Cannarozzo. I Mille, Garibaldi, non Partirono da Quarto ma dalla City…
22 Marzo 2022
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Antonello Cannarozzo ci offre questa riflessione su uno dei miti più venerati della nostra storia patria, e cioè l’impresa dei Mille. Buona lettura e discussione…
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Senza i soldi degli inglesi la conquista del Sud sarebbe stata assai improbabile
I Mille non partirono da Quarto, ma dalla City di Londra
Antonello Cannarozzo
Durante i festeggiamenti per i duecento anni della nascita di Giuseppe Garibaldi nel 2007 (il nostro “eroe” nacque a Nizza il 4 luglio del 1807 e morì a Caprera nel 1882. Ndr) tra le tante manifestazioni, incontri, pellegrinaggi nei luoghi simbolo della sua vita, si scoprì che non c’era praticamente località italiana dove il nostro non avesse soggiornato e, davanti a tanta piaggeria, un bontempone, credo in Romagna, mise una targa in marmo, sulla facciata della sua vecchia casa, nella quale era scolpita la seguente frase: “In questa casa mai, ripeto mai, dormì Giuseppe Garibaldi”.
Un modo per andare contro corrente davanti al plauso umidiccio nei confronti di questa figura entrata ormai nell’immaginario collettivo della storia anche se, come vedremo, tutta o in parte, da riscrivere come anche il nostro Risorgimento.
Un epopea, comunque la si pensi, che va rispettata, rendendo omaggio a chi, offrendo la propria vita, lottò per avere una Italia libera e indipendente per ridarle quel ruolo che la Storia le aveva dato.
Coraggio, abnegazione, sacrificio sono le peculiarità che hanno tratteggiato le azioni del Risorgimento, ma, proprio perché bisogna rendere onore a chi ha creduto in questi ideali, occorre rileggere gli avvenimenti di oltre cento anni fa non solamente con la visione del grande ideale, ma anche con gli occhi delle miserie umane, dei sotterfugi, delle bugie e delle prevaricazioni per comprendere cosa siamo oggi come italiani, nel bene come nel male, e, soprattutto, affinchè gli ideali di libertà e di onestà non siano ridotti ad una vuota mitizzazione.
Per questo non bisogna neanche denigrare, né ridicolizzare coloro che erano dalla parte degli sconfitti in difesa dei loro ideali, ma fuori ormai dalla storia, la quale però per essere tale ha bisogno di verità, qualunque essa sia come abbiamo cercato di fare in questo scritto.
Raccontare le gesta di Garibaldi non è un’impresa facile perché si parte da una storia a dir poco agiografica come quando, appena dodicenne, salvò dall’annegamento una povera lavandaia oppure quando si oppose a dei ragazzi che volevano farla da padrone nel suo quartiere, insomma, già da piccolo dimostrava di essere un eroe senza macchia e senza paura.
Una nomea che gli resterà attaccata per tutta la vita anche se gli avvenimenti di cui fu protagonista non sempre furono proprio limpidi, senza contare che un coraggioso eroe definito dai suoi contemporanei ‘senza macchia e senza paura’ fosse poi definito da figure come Mazzini un uomo non intelligente, confrontando il suo sguardo a quello di un leone, per mettere in risalto non la forza, ma la stupidità, Vittorio Emanuele II lo bollava come un militare incapace ed amministratore poco onesto e infine Cavour lo valutava poco o nulla, ma lo utilizzò come un burattino.
Eroe senza macchia e senza paura
Per capire la figura dell’‘eroe’ pensiamo sarà sufficiente partire proprio dalla sua più grande impresa che lo rese celebre nel mondo: la spedizione dei Mille in Sicilia, grazie alla quale, risalendo la Penisola, riuscì a conquistare, come è noto, Napoli ponendo così fine al secolare Regno dei Borboni.
Sempre secondo la storiografia patria, tutto fu realizzato con solo mille uomini, volontari male armati, ma ricchi di tanto coraggio e di fede negli ideali dell’unità nazionale.
Ovviamente, le cose non stanno proprio così, anzi è tutta un’altra storia come avremo modo di chiarire.
Cerchiamo allora di comprendere i prodomi dell’avventura dei Mille e della fine dei Borbone partendo dall’isola regina del Regno: la Sicilia.
Al centro di tanti interessi
L’isola, o Trinacria dal suo antico nome greco, era in una posizione eccezionale per essere al centro del mar Mediterraneo, un punto strategico di ampio respiro commerciale che andava dalla Spagna all’allora impero Ottomano, fino alle coste del Nord Africa arrivando a molti Stati del Nord Europa.
Insomma, i Borboni avevano un tesoro nel loro regno dalle immense possibilità di ricchezza attraverso gli scambi commerciali e con una flotta mercantile di tutto rispetto per l’epoca. Ricordiamo che fu proprio una nave siciliana ad aprire per prima la linea diretta con New York e, dunque, con gli Stati Uniti.
A questo bisogna aggiungere che l’isola, come già ai tempi dei Romani, era considerata una vero granaio per la ricchezza dei cerali che si coltivavano e per una agricoltura all’avanguardia per l’epoca, specie per gli agrumi, ma la ricchezza ancora più grande e fondamentale per la nuova rivoluzione industriale era l’oro rosso: lo zolfo ciò che oggi può essere paragonato al gas o al petrolio.
Adoperato per la fabbricazione di sostanze chimiche, tra cui i conservanti, gli esplosivi, fondamentali poi per la lavorazione dei metalli, di fertilizzanti, di insetticidi, di medicamenti e anche beni di uso quotidiano.
Erano oltre quattrocento le miniere del prezioso minerale che all’epoca coprivano addirittura il 90% della produzione mondiale di zolfo e di tutti i prodotti affini.
Ci siamo dilungati su questa ultima ricchezza siciliana per capire, attraverso una comminato di cause, il perché sia crollato il Regno Borbonico, non certo per insurrezioni popolari, ma per qualcuno che aveva interesse a tutto questo ben di Dio e si è servito dell’ideale dell’Unità d’Italia per eliminare ogni ostacolo alla sua espansione commerciale e pertanto il Regno napoletano doveva cessare di esistere e lasciare libera la Sicilia di essere, aggiungiamo noi, depredata da altri.
Detto questo, non si può non guardare che alla City di Londra e non certo a Torino per capire, almeno in parte, gli avvenimenti del nostro Risorgimento.
A mettere in allarme gli inglesi che aspettavano solo il momento giusto per intervenire per ‘liberare’ la Sicilia, furono due italiani di spicco nella massoneria inglese che avremo modo di conoscere meglio: Giuseppe la Farina e Francesco Crispi, anni dopo divenne Capo del governo, quest’ultimo si recò anche a Londra per avvertire i suoi fratelli di Loggia che erano in atto trattative tra il Regno Borbonico e Napoleone III per avviare l’estrazione dello zolfo con sistemi meccanici, risparmiando la fatica agli uomini addetti a questo lavoro e soprattutto ai “carusi”, i bambini, che lavoravano alle miniere.
L’intervento dell’Inghilterra
La notizia fu il classico fulmine a ciel sereno.
Non poteva essere che una tale ricchezza fosse appaltata alla Francia e anche per questo la Gran Bretagna fu ‘obbligata’ ad intervenire.
Lo zolfo, insieme alla collocazione geografica della Sicilia, faceva gola all’impero di Sua Maestà come obiettivo strategico, non solo commerciale, essa entrava a pieno titolo nella geo politica senza dimenticare che, al di là di una miope propaganda, la marineria borbonica, era una agguerrita concorrente nei confronti della flotta mercantile inglese e, a tutto questo bisogna, aggiungere che di lì a poco, siamo nella metà del XIX, si stava aprendo quella che fu definita la via commerciale più importante del mondo: l’apertura del Canale di Suez, per il quale la Sicilia sarebbe stata un centro nevralgico per questa nuova realtà commerciale.
Da questo lungo preambolo nasce la famosa spedizione dei Mille.
Non è facile seguire come si sono svolti i fatti della spedizione a causa di una apologia che sfocia poi nel mito, iniziando proprio dalla partenza delle famose camice rosse dalla località di Quarto, vicino Genova.
Se si vuole dare un inizio a questa avventura, talmente segreta che Cancellerie europee ne conoscevano da tempo ogni mossa, bisogna partire da un telegramma cifrato inviato dal patriota Nicola Fabrizi a Garibaldi nel quale scriveva: “Offerta botti 160 rum America, Pence 45 venduto botti 66 Inglese 47 anticipo lire 114 botti 147. Brandy senza offerta. Avvista incasso tratta lire 99. Rispondete subito”.
Il messaggio fu inviato da Malta, territorio guarda caso inglese, il 26 aprile 1860 per affrettare Garibaldi alla partenza informandolo degli esiti della rivolta alla Gancia, località vicino a Trapani, una insurrezione, di cui ci sarebbe da scrivere in merito alla loro spontaneità, che stava incendiando addirittura tutta l’isola.
Garibaldi però, contrariamente al pensiero storico di facciata, non era inizialmente a favore dello sbarco in Sicilia, gli sembrava una perdita di tempo, mentre si poteva sfruttare il favorevole momento di entusiasmo patriottico ancora vivo per il positivo esito della seconda guerra d’Indipendenza conclusasi l’anno precedente e per tentare finalmente l’invasione dei territori del Papa, e ciò era possibile nei suoi piani con una rapida e fulminea avanzata militare su Roma.
Un progetto certamente concreto e per certi aspetti più facile, almeno sulla carta, dato che rimaneva il problema delle truppe francesi in difesa dello Stato Pontificio, ma detto questo, anche affrontare una lunga navigazione verso la Sicilia, dovendo proteggersi dal controllo di ben 24 navi della Marina borbonica dispiegate lungo tutto il tragitto, era una impresa quasi impossibile senza essere catturati o affondati.
Altri punti deboli dell’impresa, analizzata dal nostro ‘eroe’, era l’impari schieramento delle forze in campo: i Mille, secondo lo stesso Garibaldi inizialmente non sarebbero stati più di 3 o 400 volontari, avrebbero dovuto combattere contro un esercito addestrato e ben armato di stanza sull’isola con almeno 25.000 soldati, secondo altre fonti, sempre inglesi, il loro numero era intorno ai 36.000, insomma, sarebbe stata una carneficina sensa dimenticare la difficoltà non indifferente per l’epoca di traversare lo stretto di Messina ( i ferryboat arrivarono trent’anni dopo)
Uno strano telegramma
Ma il telegramma inviato da Fabrizi e decriptato da Francesco Crispi, convinse Garibaldi ad intraprendere questa nuova avventura militare in aiuto dei fratelli siciliani.
Fu deciso, in segreto dalle forze di sicurezza sabaude che a parole non volevano questa spedizione pur conoscendo ogni dettaglio della spedizione, di salpare dallo scoglio di Quarto vicino Genova e di lì raggiungere la Sicilia.
Occorrevano però le armi ed anche tante, ma dove trovarle?
Con una raccolta popolare veramente generosa si riuscì ad racimolare circa un milione di lire piemontesi, una cifra assai ragguardevole che permise di comprare i modernissimi fucili Enfieldmentre la Colt inviava le sue famose pistole.
Tutto bene, finalmente si poteva partire, ma stranamente il governatore provvisorio di Milano “liberata” dagli austriaci, Massimo d’Azeglio, da cui dipendeva anche Genova, non dette il permesso di poterle avere e si dovette ricadere sulle armi fornite dal patriota Giuseppe Farina, già deputato al Parlamento piemontese e promotore di raccolta fondi per la causa siciliana.
Davanti a questa situazione il Governo sabaudo dovette intervenire, confermando il sequestro, nonostante qualche tentennamento di Cavour che poi autorizzò d’Azeglio, suo sodale, a procedere nel sequestro e a Garibaldi, come accennato, rimasero solo dei vecchi fucili.
La questione era assai chiara; il Piemonte non voleva essere ufficialmente coinvolto come Stato aggressore, dunque avrebbe osservato a debita distanza come procedevano le sorti della guerra per poi intervenire come il ‘salvatore della nuova patria italiana’, ma il motivo non era solo questo.
Nella contingenza di quei momenti, la ragione di questo diniego da parte di Cavour su questa missione, ad un passo dalla partenza, era dovuta a vari fattori tra cui i più salienti rimanevano quello non inimicarsi l’alleato francese con un’azione militare non prevista e poi da non sottovalutare la presenza inglese in quelle acque poste come un avvoltoio che aspettava solo che la preda, vale a dire la fine del Regno borbonico, venisse uccisa per assidersi poi davanti alla carcassa da spolpare e, non ultimo, l’astio per Garibaldi visto, e non aveva certo torto, come un avventuriero.
Con l’atto di non dare le armi, Cavour sperava in cuor suo nell’insuccesso dell’evento, ma ora doveva seguire lo spirito popolare, sempre più entusiasta dalle gesta di Garibaldi.
Infatti, dopo i primi successi del Nizzardo anche Cavour cambierà idea e le ricchezze del regno borbonico presto sarebbe andato a quello sabaudo e, solo per riflesso, all’Italia.
Finalmente si parte
Detto questo, tornando alla partenza dallo scoglio di Quarto, Garibaldi riuscì ad avere, come abbiamo scritto, solo un migliaio di vecchi fucili, che certo non erano di una grande efficienza, ma, comunque, erano meglio di niente anche perché, per come si svilupperà l’avventura siciliana, avrà molti più aiuti di quanto potesse sperare in quei giorni.
Intanto, a non volere apparire ufficialmente in questa spedizione furono anche i fratelli Rubattinodi Genova, gli armatori delle navi Lombardo e Piemonte, impiegate per il trasporto dei volontari, i quali, per non perdere eventuali commesse proprio dal Sud, si fecero ‘rubare’ le due navi così da non essere coinvolti, ma anche, come dissero le malelingue, per riscuotere il premio assicurativo oltre ad avere i soldi da questa missione.
A questo punto dovremo seguire il viaggio attraverso il diario del Generale il quale, anche per la confusione di quei momenti, non sapeva esattamente quanti volontari sarebbero accorsi al suo proclama che diverranno al momento dell’imbarco ben 1089, più di quanto potesse pensare, provenienti per lo più da Milano, Brescia, Pavia, Venezia e ancora di più da Bergamo, detta poi la “città dei Mille”.
Prima di proseguire nel racconto di questa traversata, sorge spontanea una domanda: come mai Garibaldi venne messo a capo di questa missione così delicata e non priva di rischi e chi gli diede questo incarico, chi lo aiutò concretamente in questa impresa?
La risposta torna al governo di Sua Maestà britannica attraverso la collaborazione con varie Logge Massoniche esistenti sul Continente.
Gli inglesi avevano già conosciuto l’eroe in alcune missioni di guerriglia armata in America Latinanon proprio commendevoli, ma utili certamente agli interessi della Corona inglese.
Le avventure dell’eroe in Sud America
Nell’America Latina degli anni trenta del XIX secolo, gli inglesi, attraverso l’Uruguay, per i loro interessi commerciali appoggiarono la secessione della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul dall’allora impero brasiliano, foraggiando una tragica guerra civile in Brasile.
Garibaldi, già conosciuto per una serie di avventure nella zona, venne arruolato con il ruolo di incursore nelle retrovie dell’esercito brasiliano, ovvero un raider, con il compito di distruggere l’economia dei territori ostili, annientando i villaggi, incendiando i raccolti e depredando il bestiame, insomma un lavoro per gente perbene.
Nonostante questi aspetti poco lusinghieri, il compito, per cui era stato ingaggiato, Garibaldi lo aveva portato a buon fine tanto da figurare nella politica coloniale inglese del continente Latinoamericano come un eventuale riferimento per azioni di guerriglia per rafforzare gli interessi commerciali e finanziari di Londra verso il Rio de la Plata, una regione economicamente molto interessante per la City londinese.
Così torniamo di nuovo alla spedizione da Quarto.
Quando si legge nella prosa patriottarda che appena mille volontari sbaragliarono, come abbiamo già accennato, l’esercito borbonico siamo in piena fantasia storiografica.
Le truppe di Garibaldi vennero rinforzate, poco dopo la partenza dal mar Ligure, tanto che dopo il primo sbarco a Marsala si ebbero altri successivi sbarchi composti da ben 20 navi per 33 viaggi complessivi, quasi sempre provenienti da Genova o da Livorno tra giugno e settembre di quell’anno per un numero complessivo di ben 21.000 volontari e molti altri accorsi da tutto il Meridione, specialmente dalla Sicilia, altro che solo mille volontari.
Questo traffico, almeno quello che partiva dalla Liguria, venne interrotto dallo stesso Cavourperché Garibaldi, preso dall’euforia delle prime vittorie, aveva manifestato pubblicamente ancora una volta l’intenzione di conquistare Roma, creando di fatto gravi problemi diplomatici con la Francia, nume tutelare di Pio IX.
In una breve nota, a margine di questi viaggi, troviamo la presenza di ben sette navi per il trasporto quasi totale di materiale bellico, le navi erano sette di cui cinque inglesi altro che un migliaio di vecchi fucili.
Un’altra domanda da porsi su questa avvenimento è perché si scelse proprio Marsala per lo sbarco essendo una località ai margini dell’isola, con problemi non da poco per raggiungere Messina e di lì attraversare lo Stretto per risalire la penisola.
La cittadina in realtà era una specie di roccaforte, guarda caso, della comunità inglese sull’isola impegnata in affari considerevoli oltre il commercio nella viticoltura.
A dimostrazione degli interessi inglesi nelle questioni italiane, il 10 maggio, poco prima dello sbarco di Garibaldi, l’ammiragliato inglese diede l’ordine alle due navi militari l’Argus e l’Intrepid di lasciare Palermo, dove erano in rada, e giungere a Marsala, tutto con la scusa di proteggere i propri concittadini dai garibaldini (sic), in realtà, come è facile intuire, il loro compito era di favorire l’entrata nel porto delle due navi dei Rubattino.
Se poi qualcuno pensa che lo sbarco avvenisse, per motivi di sicurezza, in piena notte si sbaglia.
Lo sbarco avvenne addirittura nelle prime ore del pomeriggio verso le 14, cioè in pieno giorno a dimostrazione della certezza che avevano di sbarcare illesi dalle navi e infatti fu così.
Un particolare che forse pochi sanno sulla la fine delle due navi dei Rubattino, è che il Lombardo, solo dopo però aver sbarcato gli uomini, venne affondato e il Piemonte che si era arenato, venne trainato inutilmente a Napoli e li abbandonato.
Uno sbarco con qualche sorpresa
Lo sbarco avvenne ‘curiosamente’ proprio davanti il Consolato inglese e vicino alle fabbriche di vini di proprietà sempre degli inglesi, tutto ciò per impedire una qualsiasi reazione della marina borbonica, infatti questo stratagemma, insieme ad un altro di cui racconteremo più avanti, ostacolò di fatto l’attacco delle tre navi napoletane giunte sul posto per fermare questi che oggi diremo clandestini.
Come in tutte le avventure ci sono anche qui elementi curiosi come quando a Marsalasbarcarono solo 776 persone e non 1089 perché i volontari di fede repubblicana appena seppero che si andava a liberare la Sicilia in nome di re Vittorio Emanuele II, preferirono lasciare la spedizione siciliana sbarcando a Talamone.
Tornando all’ingerenza inglese durante l’arrivo dei cosiddetti Mille, come abbiamo accennato, trovarono un altro stratagemma per difendere maggiormente lo sbarco degli uomini di Garibaldi, fecendo scendere dalla nave Intrepid, già menzionata, marinai travestiti da garibaldini con tanto di camice rosse, confondendo di fatto i marinai napoletani e impedendo loro di sparare, uno stratagemma che permise di salvare di fatto i garibaldini da una precoce fine, ma la cosa più curiosa, di queste prime ore a Marsala era il silenzio che avvolgeva tutta la città all’arrivo dei nostri.
Per le strade deserte non si vedeva nessuno ad accoglierli come liberatori a differenza di quanto aveva raccontato Crispi a Garibaldi.
Nino Bixio, l’uomo di fiducia del nostro eroe, rimase stizzito, deplorando il fatto che non s’incontrava alcun siciliano per applaudirli.
Per sdrammatizzare la situazione, Garibaldi, in vena di ironia, indicò due bambini, fratello e sorella, che erano gli unici per strada che osservano con gli occhi spalancati la scena di quegli stranieri che si avvicinano.
“Ecco – esclama – due rappresentanti del Popolo Siciliano che ci danno il benvenuto” un aneddoto riportato dallo scrittore Giancarlo Fusco.
Prendiamo ancora da uno scrittore coevo di Garibaldi, Cesare Ambrogio Cantù proprio la descrizione sul silenzio della città di Marsala precisa:” Vi trovò scarsa accoglienza e dov’è pagare tutto a soldo e quattrini e fin dieci soldi l’uno le uova.
Benché decretasse la formazione di un esercito siculo, non d’un sol uomo s’accrebbe il suo immortale drappello; sicché appariva un’invasione, una conquista estranea al paese! Bisogna dare, dunque, importanza a quelle poche squadre che duravano in armi nell’interno dell’isola, e vi mandò ordine che li raggiungessero mente ‘egli s’avviava verso Milazzo. Fino a Calatafimini non ebbe né cibo, né aiuti, né cure e le poche squadre trovatesi a fronte della truppa regolare, ricusarono combattere”. Insomma non proprio una entrata trionfale”.
Ancora un altro scrittore meridionale, l’agrigentino Salvatore De Martino, scrive:” A Marsala parte della popolazione si chiuse in casa altri fuggirono nelle campagne. I garibaldini, accolti festosamente solo dagli inglesi, per prima cosa abbatterono il telegrafo, poi alcuni si accamparono nei pressi della città praticamente vuota, mentre Garibaldi, temendo la reazione popolare si rifugiò con altri nella vicina isola di Mozia”
In merito alla gente festante che avrebbe dovuto accogliere il Generale lungo le strade siciliane, in realtà, come a Marsala, poche o nulla furono le acclamazioni al passaggio dei garibaldini: “Entrammo – scrive, con un po’ di poesia, Cesare Abba al seguito della spedizione di Garibaldi nel libro di memorie “Da Quarto al Volturno” — ad Alcamo alle undici. È bella questa città, sebbene mesta; e all’ombra delle sue vie par di sentirsi investiti da un’aria moresca. Le palme ispiratrici si spandono dalle mura dei suoi giardini; ogni cosa pare un monastero; un paio d’occhi balenano dagli alti balconi; ti fermi, guardi, la visione è sparita. Dove sono le folle? Al buio non si vedono… Si vedono soltanto un bel “paio di occhi”.
Sinceramente assi poco per parlare di ovazioni o di bagni di folla e né tantomeno delle tante rivolte popolari in corso.
Un esempio di come si svolsero i vari combattimenti sull’isola, certamente è la battaglia di Calatafimini, avvenuta il 15 maggio e definita come la più importante essendo il battesimo del fuoco da ambo dove i garibaldini si scontrarono con l’ottavo battaglione di Cacciatori napoletani.
Il mito delle grandi vittorie
L’episodio è stato poi mitizzato dalla solita storiografia patriottica come una grande vittoria e in realtà lo fu, ma non certo grande.
La battaglia durò poco, ma abbastanza violenta tanto da riportare tra le fila borboniche 16 feriti e una decina di morti, ma tra le file delle camicie rose ci furono ben 30 morti e oltre 100 feriti.
Con queste cifre come si può parlare di grande vittoria di Garibaldi e delle sue truppe?
È presto detto.
Nonostante l’evidente vittoria dei soldati di Francesco II, come capiterà in tutta questa campagna nel Sud, avranno, purtroppo per loro, ordini precisi per perdere ogni battaglia.
Così, a Calatafimini abbandonarono il campo per il tradimento del generale Landi, che, con una armata di circa 16.000 uomini acquartierata proprio vicino all campo di battaglia, preferì ritirarsi e rinchiudersi a Palermo rifiutandosi di mandare il rifornimento di munizioni e costringendo i suoi soldati già vittoriosi ad abbandonare la battaglia e lasciando al perdente Garibaldi il sapore della vittoria, ma soprattutto aprendogli la strada verso Palermo e, dunque, per la Sicilia intera.
Ma questo non è l’unico episodio in cui si dimostra che non mancò certo il coraggio ai soldati napoletani, ma ebbero la sfortuna di avere come superiori degli inetti se non addirittura venduti al nemico.
Un altro esempio, ma se ne possono citare a decine, fu la presa di Palermo.
Il Generale Lanza, comandante della guarnigione borbonica, nonostante avesse 24000 soldati ben armati e sostenuto dall’artiglieria della pirofregata Ercole, fece un errore, probabilmente voluto, di rinchiudersi nel palazzo del governatore anche quando parte delle sue truppe respinsero i garibaldini arrivando addirittura a cento metri dal posto di comando di Garibaldi, i soldati ricevettero ‘stranamente’ l’ordine di immediata ritirata dallo stesso Lanza il quale senza combattere e, aggiungiamo noi, senza vergogna e senza alcuna giustificazione militare, l’8 giugno consegnò la città agli anglo-garibaldini.
Una decisione, dovuta probabilmente, alla consegna da parte inglese di un carico di piastre d’oro turche, già citate, una moneta franca che serviva proprio anche a scopi del genere.
Una città indifesa
È il giorno 27 maggio 1860 Garibaldi entra in città.
Molte strade sono libere da soldati borbonici insieme ad ogni forma di controllo, grazie al doppiogioco del Lanza e, bisogna dirlo, anche da folle osannanti per i liberatori.
È interessante notare come i cittadini britannici che seguivano i garibaldini, non riferirono di masse popolari in rivolta, né di proclami rivoluzionari, o di vedere il tricolore italiano sventolare da ogni finestra lungo le strade cittadine?
Semplice, perchè manifestazioni di giubilo, nella realtà non sono mai esiste, ma neppure l’ombra se non casi sporadici.
Un altro caso analogo, in merito alla corruzione dei comandanti delle truppe borboniche, fu la conquista di Catania.
I garibaldini avevano occupato la città il 31 maggio, ma in appena una giornata le truppe borboniche cacciarono gli uomini di Garibaldi e nonostante avessero messo in fuga gli invasori, ricevettero anche questa volta l’ordine direttamente dal generale Clary, comandante della piazza militare di Messina e Catania, di lasciare la città in mano agli sconfitti.
Lo stesso Clary fece poi ritirare anche la sua guarnigione da Messina lasciando, come già a Catania, la città allo sbando che venne difesa da un manipolo di soldati napoletani, ormai assediati nella Real Cittadella della città, con una guarnigione borbonica di circa 4.000 soldati che restarono l’ultimo baluardo in Sicilia del Regno borbonico dopo che i garibaldini il 27 luglio avevano occupato senza fatica la città.
Le truppe borboniche, arroccate nella fortezza, potevano resistere ancora molto tempo, grazie a 40 cannoni e con mura solide e spesse, ma nessuno aveva rifornito il castello di viveri ed acqua, creando una situazione a dir poco disperata.
I soldati borbonici in balia dei loro comandanti
Non sempre Garibaldi e i suoi uomini trovarono soldati corrotti come avvenne, ad esempio, a Milazzo prima di imbarcarsi per raggiungere la Calabria, dove i suoi volontari ebbero una clamorosa sconfitta dopo una battaglia senza esclusione di colpi tanto che i napoletani dovettero contare ben 120 morti, ma i garibaldini addirittura 800 caduti anche se, per i soliti tradimenti ed inefficienza, la vittoria fu proclamata dallo stesso Garibaldi.
Altro esempio, a dimostrazione che i comandanti della marina borbonica, come anche dell’esercito, erano stati corrotti con notevoli quantità di oro spiega il mancato ostacolo al trasporto dei garibaldini attraverso lo Stretto di Messina da parte della squadra napoletana, nonostante avessero una fregata e due corvette ben armate, ma ciò nonostante permisero a Garibaldi e ai suoi di attraversare il braccio di mare a bordo del piroscafo Torino e del Franklin battente, guarda caso, bandiera anglo americana.
La tranquilla traversata dello Stretto
Ritorniamo sulle acque dello Stretto, giunti ‘eroicamente’ in Calabria anche qui lo “spartito” delle autorità borboniche suonava sempre la stessa musica: tradimento.
La guarnigione di Reggio addirittura si arrese subito, senza neanche sparare un colpo, ma questa resa ebbe anche un risvolto tragico: il loro comandante, il generale Briganti, venne fucilato dalla sua stessa truppa per alto tradimento.
Ora, però, la strada verso Napoli era aperta e la fine di una storia secolare era ormai alle porte della storia.
Per concludere l’avventura siciliana non possiamo dimenticare i famosi plebisciti che videro le popolazioni italiane aderire in massa alla nuova realtà italiana.
Ma come erano organizzati questi plebisciti? Prendiamo l’esempio della Sicilia che il 21 ottobre del 1860 sancì “liberamente” l’annessione dell’isola al Regno d’Italia.
Definirla però una burla forse è poco, perché la volontà popolare, su una popolazione di oltre 2 milioni, era manifestata poco meno che da 500 mila persone iscritti nelle liste elettorali, dunque, una esigua minoranza, ma la vittoria fu schiacciante con il 99,85% di sì e appena lo 0,15% di no cioè solo 667 siciliani.
Una vittoria, certamente indiscutibile, ma oltre alla scarsità del numero dei votanti, il plebiscito si svolse in questo modo: furono date due schede agli elettori; in una c’era scritto Si e nell’altra No e una volta segnata la scheda andava messa in due differenti urne secondo la votazione, roba da Corea del Nord ante litteram.
Detto questo, tralasciando la traversata la traversata trionfale alla conquista del Sud, altrimenti non basterebbe un libro, Garibaldi entrò a Napoli il 7 settembre del 1860, in cinque mesi aveva conquistato l’ormai ex Regno delle due Sicilie, una vittoria che era costata certamente la morte di molti uomini, ma anche, come abbiamo visto, pure tanti soldi.
A prova di chi era il patron di Garibaldi, ricordiamo che anni dopo, nel 1864, dopo aver dato prova di affidabilità, si recò in Inghilterra accolto dalla loggia massonica Alma Mater di Londra e da un tripudio, questo è assolutamente vero, di folla inneggiante all’eroe dei due mondi e all’Italia liberata, che lo accompagnò festante alla sede centrale della Massoneria scozzese.
Un giudizio assai sferzante fu quello di un testimone oculare di quei giorni di esaltazione per il nostro eroe che scrisse ad un suo amico: “Penoso spettacolo di imbecillità. La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito” chi scrive era un certo Karl Marx all’amico Friedrich Engel.
Non si poteva concludere l’epopea garibaldina in Sicilia senza affrontare il giallo, ma non troppo, della morte di Ippolito Nievo, un giovane onesto e sincero patriota e grande scrittore, a lui si deve, infatti, il famoso romanzo “Le confessioni di un italiano”.
Ancora giovanissimo, appena trentenne, morì in circostanze misteriose dopo aver dato il suo contributo alla causa garibaldina come volontario.
L’onestà non venne premiata
Durante la traversata che lo avrebbe portato in Sicilia, venne nominato per il suo rigore vice intendente con la responsabilità dell’intera amministrazione del corpo di spedizione.
Un incarico che ben presto per il giovane Ippolito si dimostrò assai arduo non solo per la complessità del lavoro, ma per una serie di calunnie sul suo conto in quanto, da buon amministratore voleva sempre le ricevute di quanto dato dalla cassa della spedizione. Tutto era segnato in un particolare quaderno dove apparivano anche le donazione di molti Stati europei alla causa meridionale, nonostante dichiarassero ufficialmente la loro vicinanza alla dinastia dei Borbone.
A queste note ufficiali, si nascondevano anche tutta una serie di malversazioni sui soldi da parte di molti che certo non era opportuno rivelare, insomma in proporzione poteva diventare una specie di ‘mani pulite’ ante litteram.
Di questo disagio che avvertiva sempre più forte, rimangono le lettere che scrisse alla sorella raccontandole come molti cercavano di arricchirsi in questa spedizione altro che liberare il Regno delle Due Sicilie.
Decise, per non essere coinvolto in affari poco chiari, di denunciare il tutto personalmente al re Vittorio Emanuele a Torino.
Preparò con cura tutti gli incartamenti nella quale si poteva evidenziare le fondamenta delle sue accuse verso un peculato sempre più grave.
La partenza era prevista la sera del 4 marzo, con il vapore Ercole che salpava da Palermo per giungere a Napoli e di lì avrebbe proseguito ancora via nave fino a Genova per arrivare finalmente Torino a bordo di una carrozza postale.
Alla vigilia della partenza, lo venne a trovare il console della Bassa Sassonia, Hennequin (ancora la Germania come nazione unita non esisteva, ndr) il quale a Palermo seguiva gli interessi dell’Inghilterra.
Senza troppi giri di parole, il diplomatico cercò di dissuadere Ippolito di partire su quella nave che, a suo modo di vedere, non era sicura, ma il giovane non comprese la gravità del messaggio che gli veniva dato e la sera dopo, come già ordinato, si imbarcò sul piroscafo con altri ottanta passeggeri.
Finalmente si sentiva sicuro, ancora qualche giorno e anche il re avrebbe saputo cosa succedeva, qui sulla nave nessuno gli poteva più nuocere.
Accuse assai gravi contro la malversazione
Le accuse, come accennato, che portava con sè erano assai gravi: come la corruzione a fiumi verso gli ufficiali borbonici anche se, grazie a questo, le camice rosse avevano potuto vincere ovunque, ma non solo forse l’aspetto più grave era come alcuni si stavano arricchendo sulla pelle dei veri volontari e della povera gente con vari intrallazzi.
Prossimi ormai a Napoli, improvvisamente la nave si inabissò a causa di una forte esplosione nei locali delle macchine, almeno questa era la tesi dei primi accertamenti.
Non si seppe mai come avvenne questa esplosione, chi volle porre fine a Ippolito Nievo e chi aveva interesse a far scomparire per sempre questi documenti?
La risposta potrebbe essere semplicemente tutte le persone coinvolte nella documentazione, ma ovviamente non ci sono prove.
Per il suo rigore il giovane si era fatto nemici da per tutto e quando si seppe che colando a picco l’Ercole era andato perduto nel fondo del mare anche tutto l’incartamento, pensiamo che non pochi accolsero a Palermo, ma anche in tanti luoghi della Sicilia la notizia del disastro con grande soddisfazione.
Anche questa storia fa parte della missione garibaldina.
Antonello Cannarozzo
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Tag: cannarozzo, garibaldi
Categoria: Generale
Condivido in pieno quanto affermato da Cannarozzo. In verità mi ero già fatto un’idea molto simile degli eventi, anche se con qualche differenza a causa della mancanza di specifiche documentazioni. Ma, da quello che ho letto da qualche parte, sembra che anche i Rotschild avessero avuto un ruolo non di secondo piano in tutta la vicenda, visto che uno dei figli del patriarca Nathan di Francoforte era stato inviato ad aprire nuove attività finanzarie proprio a Napoli. E non dimentichiamo, poi, l’enorme mole di danaro che era nei forzieri dei Borbone che, a quanto sembra, dovesse ammontare ad oltre seicento milioni di lire in oro di quel tempo. Dove sono finiti tutti quei soldi? Interessante poterlo sapere!
@Cesare Maria Glori
Grazie.
Ritirero il suo libro
Gli scarsi commenti su questo tema, qui esposto in modo politicamente scorretto infrangendo i miti di quella (falsa) “epopea” chiamata “La Spedizione di Mille”, molto dice dell’acquiescenza generalizzata da parte degli Italiani, alla leggenda che da sei-sette generazioni ha irrimediabilmente, per sempre, influenzato la mente degl’Italiani grazie ai condizionamenti praticati già fin dalla tenera età attraverso l’ “insegnamento” scolastico. Ci si meraviglia del plagio subìto dalla massa, ai giorni nostri, che di fronte alle prove “provate” sulle menzogne diffuse in materia di Covid, o della tragedia in atto in Ucraina, non deroga di un ette dalla vulgata imposta dai mass media di regime e dai dirigenti della Nazione. Il processo è identico: di fronte alle ormai molte pubblicazioni che almeno da una ventina d’anni, grazie soprattutto ad Internet, costituiscono un antidoto al veleno cosparso nella leggenda risorgimentale, molto difficilmente qualcuno cambia parere, e per niente la massa del popolo.
All’epoca l’unificazione italiana andava fatta perché i piccoli Stati della Penisola non potevano più reggere al confronto con le grandi potenze europee; lo stesso Pio IX non si sarebbe opposto all’unificazione, ma il modo in cui è stata fatta fu pessimo, e se prima vi era una unità morale e spirituale tra le varie stirpe italiane, benché separate in diversi Stati, con l’unificazione politica, per il modo in cui fu fatta, si aprì invece un solco che sempre più si è allargato, in particolare tra le genti del Nord e quelle del Sud. E l’infame leggenda sempre sostenuta ed ampliata dalle Amministrazione pubbliche col concorso del mondo della sedicente “cultura” non ha fatto altro che allargare questo solco facendolo diventare una voragine; una voragine di odio soprattutto dei Settentrionali nei confronti dei Meridionali, la cui terra allora fu fatta terra di conquista e ridotta a colonia del Nord, inaridendo per sempre le sorgenti di benessere e civiltà al tempo non certo inferiori alle altre regioni della Penisola, ma che anzi in una certa misura eccellevano nel panorama italiano. E’ sufficiente andare a leggere sui cosiddetti “social”, specchio fedele degli umori della massa, ma anche di chi li gestisce, i commenti, veramente aberranti, carichi di odio nei confronti dei Meridionali, oltre che dimostranti un’ignoranza veramente indicibile sugli argomenti trattati.
Recentemente in occasione della partita di calcio Verona-Napoli i tifosi settentrionali hanno esposto in uno striscione le coordinate geografiche della città di Napoli invocando i Russi d’inviarci un bel missile nucleare. Chi riduce questa canagliata ad un motto di spirito, a goliardia o a “dialettica” “sportiva” (e d’altro canto lo “sport” oggi è ridotto a questo), non ha capito niente o volutamente e disonestamente sminuisce un significato che non nasce dal nulla. Le “idee” si covano e si diffondono in una comunità, e se le “regole sociali” impongono – certe idee – di non portarle alla luce, ecco che in certe condizioni, in cui si crede che si possa derogare da dette regole, vengono fuori da parte di un certo gruppo che poi, ipocritamente condannato dalla stessa comunità, non fa altro che esprimere ciò che al suo interno – più o meno sottotraccia – è diffuso.
Tornando alle tragedie odierne (Covid e guerra in Ucraina quelle d’attualità, ma ce ne sono numerose altre), molti esperti hanno spiegato la necessità che hanno i regimi dittatoriali di creare un nemico interno su cui riversare l’odio della massa (o della parte da loro destinata a ritenersi i “puri”, i “detentori della verità”) nei confronti del resto della popolazione a cui vengono addebitate tutte le manchevolezze che affliggono l’intero popolo, onde stornare da se stessi la responsabilità di quelle manchevolezze. E’ quello che da più di un secolo e mezzo è stato praticato riguardo alla gente del Sud, dopo aver ridotto ad un deserto le loro terre (perfino le industrie fiorenti che vi erano, quando possibile furono trasferite al Nord, altrimenti furono distrutte).
Debbo rilevare alcune manchevolezze che , pur non alterando la vicenda dei “Mille”, lascia in ombra i veri artefici italiani che vivevano nell’Inghilterra. Ad esempio la deviazione per Talamone si rese necessaria per imbarcare i “garibaldini” toscani che erano stati incaricati di cambiare i milioni di franchi francesi (troppo pericolosi per i destinatari ufficiali borbonici ) in piastre turche d’oro che furono cambiate a Livorno , città vicina a Lucca ove le piastre erano coniate. I franchi francesi erano stati raccolti a Edimburgo grazie alla sollecitazione delle logge massoniche Inglesi.
Le piastre turche circolavano in modo sicuro in tutto il Mediterraneo. Il sultano di Istanbul affidava alla famosa Zecca di Lucca l’incarico del conio.
Ci sono infine anche il nome del probabile responsabile dell’affondamento, l’uomo di Cavour inviato a Palermo a controllare per suo conto l’Intendenza diretta da Nievo . Il giornale napoletano IL DIRITTO riportò il giorno 10 marzo 1861 che la pirofregata Ercole era colata a picco nel golfo di Napoli elencando i nomi delle vittime . L’uomo di Cavour si chiamava Lorenzo Garasini che risulterà poi essere annegato nel naufragio di una nave proveniente dal Marocco ove aveva imbarcato cavalli per l’Esercito Italiano.
Il mio libro La tragica morte di Ippolito Nievo del 2010 illustra in modo analitico e completo la vicenda che vide Nievo quale prima vittima della ragion di Stato del novello Stato Italiano che venne dichiarato dal parlamento subalpino il 17 marzo 1861.
La mia ricerca, che fu seguita con apprezzamento dal pronipote di Ippolito, Stanislao Nievo, fu ostracizzata dai media nostrani nonostante le prove inconfutabili circa il delitto di Stato. Il libro può ancora essere richiesto all’editore Solfanelli di Chieti
@ Januensis
Faccia molta attenzione!
Non c’è alcun rapporto né parentela tra i principi Lanza Trabia di Palermo e il tenente Ferdinando Lanza , nativo di Nocera dei Pagani, ufficiale del Re di Napoli Francesco II, inetto soldato e traditore, se non questa casuale omonimia.
Riguardo poi al fatto che alcuni nobili siciliani fossero amici degli Inglesi, e vero.
Amici, confratelli massoni e odiatori del Re di di Napoli che consideravano un invasore della Trinacria.
Non solo.
Alcuni si erano anche imparentati con loro.
Durante i saccheggi che furono concessi ai garibaldesi e ai picciotti di mafia dai loro capi, come premio per le fatiche di guerra, capitò che alcuni nella confusione stessero per incendiare la casa di una lady inglese sposata a un nobile siciliano.
La salvarono in extremis.
Proprio così, cara e gentile Milly.
Non le sembra curioso che alcuni chiedano ai commentatori di questo blog, oltre che ai giornalisti, la citazione delle fonti?
Hanno l’aria di quanti sfidano l’interlocutore con ” le prove, caro mio, dove sono le prove?”
Per quanto mi riguarda, spesso dimentico dove leggo le cose, perché leggo molto e ritengo molto breve lo spazio di un semplice commento per corredarlo di code ..
Lo stesso può dirsi di un articolo, a meno che non sia un saggio.
Inoltre, ho scelto questo blog per esprimere i miei pensieri perché ho sperimentato che è fededegno, frequentato da gente seria, che si documenta prima di scrivere.
C’è una lunga lista di ottimi libri di storia moderna e contemporanea , che ognuno può consultare anche sul web e scegliere che cosa studiare o approfondire.
Le cose andarono esattamente così come riportato da questo ottimo articolo.
La storica Angela Pelliciari ha scritto un bel libro dal titolo: ” Risorgimento da riscrivere: liberali & massoni contro la Chiesa” Edizioni Ares, dove, con documenti alla mano, descrive perfettamente tutta la verità sugli avvenimenti di quel periodo.
Il Regno delle Due Sicilie era all’avanguardia per tutto quello che riguardava il progresso, l’economia e via dicendo, (basti pensare che la prima linea ferroviaria d’Europa, fu la Napoli-Portici). Il Regno Borbonico aveva la Marina più numerosa ed equipaggiata d’Europa, la capitolazione della stessa appare spiegabile solo con il tradimento dei suoi Comandanti!
Bello l’articolo, ma sarebbe doveroso citare tutte le fonti
A Quarto noi genovesi abbiamo il monumento dedicato alla partenza dei Mille. Qualcuno lo chiamò familiarmente il monumento al burro che si squaglia. Demitizzazione.
Abbiamo anche ogni anno la commemorazione dell’evento.
L’idea che mi feci dell’avvenimento è che fosse la nobiltà siciliana ovvero i Baroni, etc., a desiderare con tutte la sua forze di essere conquistata. L’articolo mette bene in evidenza il fatto che molti inglesi fossero presenti nell’isola mentre Napoli e i suoi alleati francesi erano lontani. Quindi più che corruzione ci vedrei bene una certa familiarità, una frequentazione nei saloni delle principesche ville siciliane.
L’articolo parla di un Lanza a capo di una guarnigione. Lanza di Trabia ? Corrotto un principe o amico degli inglesi, suoi ospiti fissi nei suoi saloni ?
Giusto e importante il ricorso alle fonti letterarie dell’epoca. Ovvero conforme alla teoria dell’informazione.
Un sincero cordoglio per la morte di Ippolito Nievo, forse unico vero morto per la verità.
Si .
È così. Grazie anche a lei, dott. Cannarozzo
Mi sembra un miracolo che la verità affiori pubblicamente dopo secoli di menzogne.
In questi ultimi anni ci é concesso di leggere la storia drammatica del Risorgimento Italiano ( forse bisognerebbe procedere anche a rinominare tutto il periodo) a partire dalle fonti , finora neglette, delle parti non allineate al progetto anglomassonico.
Per il Sud, e in particolare per la Sicilia, non fu certo risorgimento, ma persecuzione, latrocinio, stragi e impoverimento generale.
O meglio, peggioramento delle situazioni di povertà.
Bisognerà riscrivere i capitoli sul cosiddetto brigantaggio, per cancellare un disonore inesistente sui nostri giovani di allora.
Qualche commentatore in questi giorni ha additato la Germania come nazione destabilizzante in Europa.
Secondo me, invece, ogni rovina dei tempi moderni parte dagli Inglesi.
L’odio per la Russia e per la Chiesa Cattolica sono il binomio che ha mosso la loro politica estera degli ultimi tre secoli e la storia scellerata che ne è conseguita.
Il Signore li perdoni
Perfettamente d’accordo, il brigantaggio va riscritto! Nessuno, tranne pochi storici coraggiosi, ha mai parlato di quello che i Piemontesi fecero alla gioventù meridionale.
Furono incatenati, con i ceppi ai piedi, privati di tutto, caricati come bestiame su navi che salparono alla volta della Liguria e del Piemonte, usati letteralmente come schiavi in ogni dove.
La tratta dei neri africani verso l’America è assai simile a quello che toccò alla miglior gioventù in quel tribolato periodo storico!