Benedetta De Vito, e la Libertà (No Televisione!) dal Curaro Quotidiano.
20 Luglio 2021
Marco Tosatti
Carissimi Stilumcuriali, Benedetta De Vito è tornata dalla sua Sardegna. Prima delle brevi vacanze di Stilum ci aveva inviato questo articolo di ricordi, che ci sembra adatto al momento, in cui dalle televisioni, ma non solo, cola a fiumi un’informazione tossica. Buona lettura.
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Fresca di maturità classica, eccomi a Villa Mirafiori, un’isolina verde sulla Nomentana, a studiare lingue e letterature straniere moderne. Non sapevo, al primo anno, che da inglese sarei passata al portoghese e che, un giorno, molti anni dopo, Santa Elisabetta, regina del Portogallo, mi avrebbe fatto conoscere, nel mistero che mi (e ci) conduce, una beata sarda, sua umile omonima, che non avevo mai sentito nominare. Si chiama Elisabetta Sanna, ha avuto un marito e cinque figlioli. Avanti negli anni, partita per la Terrasanta, rimase a Roma dove morì e dove riposa in una chiesa a Campo dei Fiori (San Salvatore in onda), dove andrò a trovarla appena tornata a Roma. E sia.
Ma ora, buttiamo di nuovo giù il ponte levatoio che porta, in sogno, al mio passato di universitaria e sono in un’aula bianca di Villa Mirafiori, con la mia bella tesina per la professoressa di Letteratura inglese, Nadia Fusini, che mi ha chiesto di portargliela. Essa, la tesina (intitolata “Il lirico e il razionale”), era così combinata: partendo da un sonetto di Shakespeare, in cui si legge che i gigli, quando puzzano, sono peggio delle alghe, lo riferivo, tutto intero, a Otello, un buon uomo, un giglio a modo suo (anche se di pelle mora), che diventa assassino e cattivo per colpa del veleno che Iago gli versa nell’orecchio.
E sempre nell’orecchio Claudio, l’impostore, versa il veleno che ucciderà il padre di Amleto… La tesina, non so perché, alla Fusini non la diedi mai, ma rimase ben impresso in me il senso del veleno che, attraverso il canale dell’udito, arriva al cuore e alla mente di chi ascolta e, con la tentazione, l’ingresso del Maligno. Un veleno che, oggi, io chiamerei televisione. Non dico che la tivvù sia un diavoletto ma poco ci manca. Di certo è un veleno a diffusione lenta che, piano piano, come una gocciola d’acqua, manda in malora anche un castello di principi e principesse…
E l’ho capito ancora di più, e molto chiaramente, in questi miei giorni sardi. Per motivi arcaici, legati alle abitudini famigliari, la tv nella casa-capanna della mia infanzia non è mai arrivata e mi sono trovata così a vivere, allora come adesso, con niente piccolo schermo, pochissimo computer (essendo questo di proprietà altrui e di una proprietà gelosa…) e poco anche cellulare. Il silenzio intorno era colorato di libertà.
Tutto il tempo possibile dedicato al Signore, eccomi, senza veleno nell’orecchio, orbata del fiume ininterrotto di parole inutili che s’infilano come un treno direttissimo, fatto di infiniti vagoni carichi di sporcizia, nel tunnel del mio circuito uditivo. Quel trenino al curaro, che brilla sotto l’arcobaleno di Satana, pieno come è di brio e di lucine e di paillettes, altera la percezione della realtà, mette la verità a testa in giù e, in breve, ci mena nell’inferno in cui, infatti, siamo precipitati. Senza l’invito al panico quotidiano, senza l’inno all’inversione, senza l’abbraccio velenoso del politicamente corretto, ecco che la legge del Signore, già scritta a lettere di fuoco nel mio cuore, si stagliava ancora di più nel cielo di un azzurro acceso.
Il sole sorgeva e tramontava sulla collina, il gatto Tigre voleva solo cibo e carezze, gli uccellini cantavano – con me – la gloria del Signore, la mia piccola lucertola cercava il sole, nel suo pigiamino verde smeraldo, mentre le ore passavano, tra pranzi, lavoro in casa e in giardino, chiacchiere con il figliolo e con il marito, nella vita silente della semplicità, che somiglia tanto al paradiso terrestre dove vivevano Adamo ed Eva prima della caduta.
E mentre scrivo, sentendo il ciuf ciuf della locomotiva (il TG1), che viene dalla casa accanto, ricordo un altro pezzo della mia vita, quando, fresca di laurea, ebbi tre mesi di contratto a Domenica in. Ero, nella redazione, il braccio destro della conduttrice e per lei trovavo ospiti di ogni tipo (ma lei voleva i vecchietti arzilli…). Un pomeriggio, ospite d’onore è un bimbo che fu rapito in Sardegna e poi rilasciato. Fui io ad accoglierlo e a intrattenerlo fino alla registrazione del momento suo.
Una volta bell’e finito in sala di registrazione, il bimbo voleva rimanere a guardar gli altri ma fu cacciato in malo modo… Non serviva più e quindi via. Pianse amaramente il piccolino, chiedendo perché non poteva restare, zitto zitto, in un canto nell’enorme sala della Dear film… Fu allora, nel pianto di quel piccoletto, che decisi che non avrei mai più lavorato in televisione, rinunciando l’anno successivo a un contratto di mesi sette (mi pare) come “programmista-regista” con un’altra conduttrice…
Ma l’anno in cui lavorai, lo ricordo ora che fa notizia, il regista del programma era Gianni Boncompagni, che fu compagno e pigmalione di Raffaella Carrà, trattata dal mondo – ed è un assurdo grande – al pari di una Santa martire. Ma fu lei, la Carrà (cioè la carrà-cara, cioè l’adorata, come una di famiglia…) a cominciare a sdoganare, con il suo veleno di indecenza e di mieloso sentimentalismo (che non distingue più il bene dal male, facendo di violette e gramigne un fascio), gli usi antichi, la sana compunzione, la dolce buona educazione che mi insegnava la nonna Lisetta. Come? Ma certo, mostrando l’ombelico. E poi cantando quella canzoncina che sembra innocente e anche divertente, sì, sì il “Tuca tuca”, che non è affatto innocente e che è invece molto, molto insinuante. Ogni volta che ripetiamo il ritornello, infatti, ripetiamo non tuca tuca, ma tocca tocca. E non credo di dover aggiungere altro.
E allora, concludo, ora che occorre ricomprare l’apparecchio televisivo (e lo Stato, tu guarda un poco che caso, offre un bonus per aiutar le famiglie all’acquisto…), perché invece non seguire il profetico insegnamento di Padre Pio (che proibiva ai suoi figli spirituali di guardare la televisione che era ancora quella di Ettore Bernabei, di molte spanne superiore, in senso morale, alla spazzatura di oggi), cogliere l’occasione per togliere di mezzo la tv, spegnendola completamente, non comperandola proprio più? Io, ai miei, l’ho proposto, ma non sono d’accordo, mi han preso per matta, e pace, e quindi ne avrò una.
L’avrò sì, ma sarà come non averla perché non la guarderò mai. O almeno sarà il mio impegno quotidiano tenerla zitta e mosca. Il veleno resterà nello schermo muto e grigio. E l’arcobaleno di satana, come nella girandola di Newton, si farà grigiastro, pallido, inutile. Ecco il mio fioretto perpetuo al Cuore Immacolato di Maria, che mi invita a guardar fissa lei, nello sguardo dolce, nel velo azzurro, nella visione interiore che riempie il cuore di pace. E mentre questo scrivo, mi viene in mente un ricordo altrui, di una delle nipoti del Cardinale Urbani, allora Patriarca di Venezia. Quando, insieme, alla sera guardavano “Canzonissima” o altre simili trasmissioni, appena apparivano la Carrà, le Kessler o altre ballerine, in calzamaglia, e gambe al vento, un sacerdote aveva il compito di far rotolar giù una tendina che copriva il video e la sconcezza. Tutto si faceva scuro, allora, e quel ricordo la bambina, ora donna, se lo è portato nel cuore la vita intera.
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Tag: bdv, de vito, televisione
Categoria: Generale
Due domeniche fa, chiesa località balneare, per turisti devoti predica rivelatrice: “Oggi abbiamo un terzo profeta oltre ad Amos e san Benedetto: Raffaella Carrà!”
Un prete che dicesi prete, mica di quelli fissati con la messa antica…
Insomma: “fuggire le occasioni prossime al peccato”.
Sì, va bene, ma visti i tempi che corrono questo fuggire non rischia di diventare un’affannosa ritirata lungo tutto il fronte?
Ritirarsi sempre e comunque sarebbe l’ottimo?
Personalmente non lo credo. Fuggire regolarmente dal caos non sembra molto virile né forgiante. Imparare a restar fermi in mezzo al caos è invece un eccellente esercizio. E’ nel combattimento che ci si fortifica, non certamente nella fuga perpetua.
Secondo me la canzone peggiore – nonostante il motivetto accattivante – è la canzone dell’invito (incitamento?) al sesso libero – anche se camuffato da “amore” – ossia “come è bello far l’amore …”. Chi potrebbe dire, onestamente, il contrario? E poi ci si stracciano le vesti al sopraggiungere dei tradimenti di copia sia prima che durante il matrimonio!
Avrete certo notato che questa “santa donna” è stato “glorificata” anche con uno sfarzoso “funerale cattolico”.
Siamo alla frutta? No. ormai siamo oltre la frutta!
È mancato solo che “questa canzoncina tanto bella” non sia stata cantata durante la Messa! Peccato: i fans, ossia i fanatici della Carrà, si sarebbero emozionati fino alle lacrime!