Kwasniewski, Dottrina Sociale. La Disputa fra Distributisti e Capitalisti.

1 Aprile 2021 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Carissimi Stilumcuriali, con grande piacere pubblichiamo questo articolo del dott. Peter Kwasniewski sulla Dottrina Sociale della Chiesa. E come sempre la nostra gratitudine va al dott. Carlo Schena per la traduzione. Buona lettura. 

 

Venga il suo regno: La Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica

Parte V – La disputa tra distributisti e capitalisti

Peter Kwasniewski

Questo articolo è apparso per la prima volta nell’edizione cartacea di agosto 2020 di Catholic Family e ripreso il 16 agosto 2020 dal sito online della medesima testata. Sul sito del dott. Tosatti trovate già la parte I, la parte II, la parte III e la parte IV di questa serie.

 

Parte V – La disputa tra distributisti e capitalisti

Per esperienza posso affermare che sono due gli argomenti che, più di tutti, accendono subito i più intensi dibattiti tra coloro che non si trovano d’accordo: l’economia e la musica. Se provo ad avanzare una critica verso la musica rock, pop, o rap, le tristi, smielate canzoncine che troppo spesso risuonano nelle nostre chiese, o qualsiasi altro tipo di musica moderna, senza dubbio si spalancheranno le porte dell’ira, e si riverseranno su di me le cataratte dell’indignazione. Similmente, se mi azzardo a dire anche solo una parola negativa a proposito del capitalismo di marca americana, o di quella fantasia austriaca di un libero mercato che si auto-regola e che massimizza i beni e i servizi riducendo al minimo i vizi e lo sfruttamento, posso tranquillamente aspettarmi una pioggia di tuoni e fulmini.

 

Così è avvenuto per tutti gli articoli in cui ho presentato vari argomenti contro il capitalismo come ideale, mentalità e ideologia. Mai ho speso anche solo una parola contro la libera iniziativa, il profitto o l’investimento in quanto tali. Come ho provato a dimostrare nei precedenti articoli di questa serie, la questione propriamente politica consiste sempre nel modo in cui l’esercizio della libertà individuale si relaziona con il bene comune della società – che a ben vedere è il bene preminente anche dei singoli individui – contribuendovi oppure danneggiandolo. Va detto, infatti, che se non tuteliamo il bene comune, in realtà danneggiamo noi stessi, dal momento che noi uomini fondamentalmente non siamo atomi ma animali sociali; e, se siamo cristiani, la ragione per preoccuparci del destino del nostro prossimo diventa ancora più impellente.

 

La radice del distributismo

La filosofia economica nota come distributismo – della quale i fautori più noti sono Hilaire Belloc (1870-1953) e G.K. Chesterton (1874-1936), la cui eredità viene raccolta oggi da autori come Thomas Storck e John Médaille – prende il nome dal suo principio più basilare: una società soddisfa i bisogni elementari dei suoi cittadini in proporzione diretta all’equa ed estesa distribuzione della proprietà tra di loro, e al governo appartiene la responsabilità di attuare politiche che mirino alla più capillare distribuzione della proprietà. In altre parole, questa teoria si basa sul presupposto che i beni del mondo siano destinati dal Creatore al beneficio di tutti gli uomini, e che questo beneficio si realizzi principalmente attraverso il possesso, la cura e l’uso ben ordinato di tali beni da parte delle famiglie (l’ultimo articolo di questa serie si concentrava proprio su questo punto). Per quanto sempre ci saranno imprese gigantesche e ricche, e proprietari terrieri che affittano i loro possedimenti, un’economia è tanto più squilibrata quanto più si lascia dominare da questi elementi.

 

Il distributismo non è una teoria economica così inverosimile come alcuni la vorrebbero dipingere. Ad esempio, negli Stati Uniti, misure come gli incentivi dati a chi compra per la prima volta una casa, varie agevolazioni fiscali per le famiglie numerose e per gli agricoltori, detrazioni fiscali per le donazioni a enti di beneficenza, sono tutti modi apprezzabili per incoraggiare l’acquisto o la conservazione della proprietà o, specularmente, per far sì che questa raggiunga quante più persone bisognose possibile, senza l’intervento inefficiente e impersonale dello Stato.

 

L’accusa più comune che si muove ai distributisti è duplice: da un lato, si afferma che non sono degli autentici studenti delle “scienze economiche”; dall’altro, si ritiene che essi vorrebbero risolvere i problemi economici del mondo con interventi pubblici di stampo socialista. Raramente si è vista una caricatura più evidente di questa, perché il distributismo è da sempre ed espressamente avverso al sistema socialista, e le sue soluzioni sono molto più sfumate e pratiche, come mostra il successo di imprese distributiste come la Mondragon. In molti dei loro articoli, Storck e Médaille hanno dimostrato che l’economia non è una scienza; è piuttosto un insieme di ipotesi e di predizioni basate su specifiche concezioni della natura umana e del bene dell’uomo. Tutt’altro che neutra dal punto di vista valoriale, dunque, e potenzialmente inficiata da preconcetti quanto lo è l’evoluzionismo neo-darwiniano.

 

L’accusa di statalismo

La doppia accusa di cui si è detto ci indica però una fonte di disaccordo più profonda. Il distributismo afferma, ad esempio, che è immorale che un CEO guadagni 35 milioni di dollari all’anno quando, allo stesso tempo, la sua azienda sta licenziando centinaia di lavoratori. È sufficiente che guadagni una cifra “modesta”: mettiamo, 2 milioni di dollari. I cultori della libertà di impresa, a questo punto, mi diranno: “Così stai distruggendo lo spirito imprenditoriale! Gli investitori chiuderanno i rubinetti! Una gestione brillante che sa prendersi i suoi rischi merita di essere retribuita di più!”. Queste sono le grida di uomini intrappolati in una mentalità mercatista secolarizzata, incapaci di riconoscere la devastazione morale provocata da secoli di materialismo e di edonismo promossi da quella stessa mentalità.

 

Una volta mi è capitato di sentire qualcuno incolpare il sistema delle corporazioni medioevali per non aver mai reso i suoi componenti “ricchi”. Apparentemente, questa persona vedeva come un difetto del sistema il fatto che, appartenendo a una gilda, un artigiano venisse “limitato” dalle condizioni economiche su cui i membri si accordavano, e che, per quanto nessuno sarebbe morto di fame nemmeno se avesse perso le mani in un incidente, d’altra parte nessuno avrebbe mai potuto scalare la concorrenza per dominare il mercato. Ma fu proprio a causa dell’ispirazione cattolica alla base delle corporazioni che queste non hanno mai reso i loro membri ricchi – almeno secondo i moderni standard capitalisti. Esse sono state ideate specificamente con lo scopo di non rendere alcun membro sproporzionatamente ricco rispetto ai suoi pari.

 

C’è una dura verità in questo campo, e ben pochi sono disposti ad ascoltarla: per la maggior parte delle persone, diventare ricchi sarebbe il primo passo verso l’inferno. Qualsiasi sistema che “rende ricchi” o che anche solo fa desiderare di diventare ricchi è un sistema che spiana quella strada spaziosa che conduce alla perdizione. Nelle corporazioni, al contrario, gli artigiani si riunivano in una comunità cattolica, preservando la coesione della società nel suo complesso. Piuttosto che competere e lottare gli uni contro gli altri, gli artigiani si unirono e produssero alcune delle opere d’arte più grandiose che il mondo abbia mai conosciuto – sia dal punto di vista pratico che da quello estetico. Tutto ciò lo hanno fatto, per di più, in un contesto esplicitamente cattolico, eucaristico e mariano. Le corporazioni sostenevano i loro membri malati, seppellivano i morti, facevano celebrare messe per i defunti, pregavano in comunità i loro santi patroni e andavano a messa assieme. Erano realtà genuinamente cattoliche, intrinsecamente sociali e di successo modesto, cosa che, Vangelo alla mano, è il massimo a cui dovremmo deliberatamente mirare. Andare oltre significa scherzare col fuoco (eterno).

 

L’Opposizione tra l’Amore di Dio e l’Amore del Mondo

“Dio infatti ci ha dato uno spirito non di paura, ma di forza, di amore e di sobrietà” (2 Tim 1:7): San Tommaso d’Aquino offre il seguente commento al versetto di San Paolo:

 

“Spirito” significa amore, poiché il termine “spirito” implica un impulso, e l’amore spinge. Ora, ci sono due forme di amore, vale a dire, l’amore di Dio, che è attraverso lo Spirito di Dio, e l’amore del mondo, che è attraverso lo spirito del mondo: “Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio” (1 Cor 2:12).

 

Qual è, per l’Aquinate, il risultato pratico della differenza tra questi due spiriti? Esso riguarda in particolare i nostri affetti, il cosa e il come amiamo tutto ciò che amiamo:

 

Ora, lo spirito del mondo ci fa amare i beni di questo mondo e temere i mali temporali, e così dice l’Apostolo: “Dio infatti ci ha dato uno spirito non di paura, ma di forza, di amore e di sobrietà” ( 2 Tim 1: 7) […] C’è un altro spirito, lo spirito del timore del Signore, lo Spirito Santo, e questo ci fa temere Dio. […] Anche noi siamo guidati [da questo Spirito] in mezzo alle cose buone, perché, per quanto riguarda l’affetto, noi siamo ordinati dall’amore che è la carità quando riferiamo a Dio tutto ciò che amiamo. Per questo dice: “[Spirito] d’amore” […] Similmente siamo ordinati rispetto ai ai beni esteriori, e per questo dice: “e di sobrietà”, cioè, di ogni temperanza, con l’osservanza di un debito modo e di una debita misura, così che usiamo i beni di questo mondo con temperanza.

 

Questi commenti ci portano a riflettere su che cosa significhi, non solo in teoria ma nella pratica quotidiana, ordinare correttamente i nostri affetti e quindi osservare un “debito modo e una debita misura” nel nostro uso dei beni terreni. Possiamo essere certi che la risposta sarà controculturale. Possiamo star certi che il capitalismo, un sistema progettato per aumentare i nostri tesori quaggiù, per moltiplicare il nostro desiderio per la ricchezza e il nostro accesso alla ricchezza, è, dopotutto, “conservatore”: conserva, a tutto profitto del diavolo, le inclinazioni egoistiche della natura umana decaduta piuttosto che sfidarle e sradicarle al fine di liberare l’uomo per il regno dei cieli.

 

Ogni cristiano deve decidersi: chi o cosa servirà? “Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona” (Mt 6:24). “Vendete i vostri beni e dateli in elemosina; fatevi delle borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove ladro non si avvicina e tignola non rode. 34 Perché dov’è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore” (Lc 12: 33-34). “La ricchezza artificiale”, dice San Tommaso, “ha il potere di generare un desiderio infinito – e ciò vuol dire: uno spettro illusorio del desiderio di felicità” (Josef Pieper, Felicità e contemplazione, che cita Summa Theologiae, I-II, q. 2, a. 1, ad 3).

 

Vincere lo Spirito di Possessività

Da un lato, quindi, il distributismo suggerisce politiche che cercano di promuovere la destinazione universale (o l’uso comune) dei beni per il bene naturale dell’umanità. D’altra parte, esso riconosce che quanto più si desiderano e si accumulano i beni posseduti, tanto più essi rischieranno di condurre alla possessività, che è immorale e autodistruttiva, contraria tanto al bene naturale quanto a quello soprannaturale dell’umanità. Lo stesso cristianesimo offre in tale prospettiva uno strano paradosso. Esso ha introdotto nel mondo uno spirito di attenzione per i poveri, di cura per i neonati, per gli schiavi, per gli handicappati e per gli ammalati; uno spirito che non si era mai visto nel mondo pagano – e che sta evidentemente evaporando nella nostra società neopagana. Eppure, esso affermava al contempo il valore relativo (anzi, il valore relativamente minore) dei beni terreni rispetto ai beni spirituali e alla nostra eredità celeste in Cristo. Per questo motivo il cristianesimo chiamava al digiuno e all’astinenza, e incoraggiava la pratica della povertà volontaria, come nel noto caso degli ordini “mendicanti”, i francescani e i domenicani.

 

Il fatto che nella Chiesa moderna sia estremamente raro trovare un’autentica povertà volontaria, e che la Chiesa stessa sia del tutto a suo agio in un mondo occidentale pervaso da una ricchezza materiale e da un’indigenza spirituale mai viste prima, non sembra smuovere le coscienze di molti pastori o ordini religiosi, inclusi quelli mendicanti. Non ci scusa il fatto che questo tema abbia smosso così tanto la Chiesa medievale da provocare contemporaneamente movimenti di santità e movimenti ereticali.

 

È molto difficile diventare realmente poveri in spirito (o “in corpo”) se non si ha già raggiunto quella condizione. Quando compriamo un nuovo paio di pantaloni? Quando i nostri vecchi pantaloni si stanno ormai sfilacciando, e non sono più presentabili in pubblico, oppure prima di arrivare a quel punto? Quanti pantaloni, scarpe, camicie, cravatte, etc. dovremmo possedere? Compriamo vestiti di migliore qualità perché sappiamo che dureranno di più, oppure abiti di fattura mediocre perché costano molto meno? Ci ostiniamo ad acquistare prodotti made in Italy, anche se più costosi, piuttosto che prodotti made in China o di qualche altra marca infima? È realistico oggi cercare di evitare i prodotti provenienti dal Terzo Mondo? Da quando in qua una c.d. “struttura di peccato” è diventata qualcosa a cui rassegnarsi con un’alzata di spalle? La globalizzazione ha ristretto sempre più il novero delle possibilità: ci sono buone probabilità che quanto acquistiamo ogni giorno sia stato prodotto da schiavi con salari da fame in fabbriche con condizioni disumane.

 

Rinuncia positiva per il Regno

È facile cadere nell’abitudine e accontentarsi di piccoli compromessi, pensando che in fondo non stiamo facendo altro che essere “prudenti e responsabili”, quando cerchiamo la stabilità in questo mondo. È fin troppo facile, soprattutto per noi teologi (e che Dio mi aiuti!), fare grandi discorsi sulla solidarietà, sulla giustizia sociale e sulla c.d. opzione preferenziale, mentre siamo comodamente sistemati in una casa su cui pagheremo un mutuo per tutta la vita (“tesoro, sono già nostre le finestre? O soltanto gli infissi?”), ben vestiti, ben nutriti, per nulla disperati o denudati.

 

Però “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13:14). Come cristiani, non possiamo mai mettere le nostre vere radici in questo mondo, e faremmo meglio a vivere in modo tale da tenere viva la consapevolezza del nostro stato di alienazione in questo mondo e da questo mondo, e del nostro destino nella vita del mondo che verrà. È per questo che noi tutti, laici, sacerdoti e religiosi, dovremmo sforzarci di porci regolarmente questa domanda: ho cose di cui non ho veramente bisogno? Posso usare in modo migliore i miei beni? Come rispondo a tutta la povertà spirituale e fisica che mi circonda?

 

Parlando della “scelta positiva” che per i santi accompagna la rinuncia ai beni mondani, padre Maximilian Herraiz OCD – esperto del pensiero di San Giovanni della Croce e di Santa Teresa d’Avila – ha osservato: “Si tratta dell’opzione radicale per la vita, per la verità, per la libertà e, in modo molto concreto, l’opzione per l’amore, per Dio. Quando optiamo per l’amore, scopriamo che nelle nostre case c’è troppo mobilio in eccesso. La mistica ci dice che l’amore è la dimensione essenziale della vita”. Ne Il Sale della Terra, similmente, il Card. Ratzinger osservava come in questi tempi noi cristiani dovremmo sforzarci di uscire da questo mondo sovra-arredato e stipato per raggiungere una autentica e vigile libertà interiore. Ciò significa, inoltre, che abbiamo bisogno della penitenza, senza la quale non ci può essere alcun nuovo inizio.

 

Tendiamo a pensare ai massimi sistemi, a come cambiare il mondo, se laici, o il nostro  monastero, se religiosi, alla riforma del governo come della scuola locale (forse, oggigiorno, è più facile che ci concentriamo sull’apparente impossibilità di cambiare alcunché), ma non pensiamo a quello che è, effettivamente, in nostro potere: esaminare, ripulire e sgombrare la nostra vita di ogni giorno, le nostre stanze, la scrivania su cui lavoriamo, i nostri armadi ricolmi. Può essere più difficile buttare via un mucchio di vecchie carte, oppure donare vestiti o altri beni, piuttosto che firmare un assegno per un’organizzazione di beneficenza. Non riusciamo ad accorgerci di quanto ci circonda, essendoci abituati alla sua presenza; tutto ciò contribuisce al nostro senso di identità, di benessere e di comfort. Questo è il nostro “ambiente familiare”, nativo, con il suo gradevole e caratteristico disordine, nel quale la nostra personalità si sente a casa.

 

Questo può essere un pericolo tenue ma subdolo. Come abbiamo appreso dall’Epistola agli Ebrei, noi non abbiamo quaggiù una città stabile, e dovremmo sforzarci in ogni modo di ricordare questo fatto. Il nostro sforzo dev’essere, costantemente, quello di non addomesticarci, e possiamo far ciò rendendo più semplice l’ambiente che ci circonda, stando sempre attenti a evitare l’accumulo di beni e comfort eccessivi, spronandoci ad essere più disciplinati nella preghiera e nel lavoro: in breve, non permettendo mai al nostro spirito di sentirsi “a posto”. Non si tratta di correre dietro alla malattia,  agli stracci o alla fame, ma piuttosto di abituare tutta la famiglia a quella libertà che viene dal distacco dai beni, a quel potere che viene dalla semplificazione e dall’intraprendenza.

 

Un Esame di Coscienza

Facile a dirsi, non facile a farsi. Spesso, è Dio stesso che deve farlo per noi. San Tommaso, nel suo commento al Salmo 43, spiega perché Dio permette che i cristiani siano colpiti dalle difficoltà e dalle sconfitte, siano spogliati dei loro averi, ridotti in povertà, messi alla prova: “Egli lo fa per distaccarci dai beni terreni, perché se i cristiani godessero sempre della prosperità nei beni temporali, finirebbero per servire Dio a causa di tali beni; e se questa fosse davvero la nostra intenzione, essa sarebbe frustrata da cose come le sconfitte. Affinché il nostro amore non sia mercenario, e la nostra intenzione non sia fissata sui beni corporali, Egli porta via ai Suoi amici tali cose” (Super Psalmos43).

 

Questo potrebbe essere un buon punto su cui fare il nostro esame di  coscienza. Quando subisco una sconfitta, quando la vita si fa dura, quando tutto si ribalta a mio sfavore, quando trovo resistenze, incomprensioni, e persino rifiuti: la mia fede è abbastanza forte e matura da farmi dire: “Grazie, Signore. Mi hai appena insegnato, ancora una volta, che la mia unica dimora è in Te, che non ho alcun tesoro se non la Tua grazia e il Tuo amore”? Se ci accorgiamo di non riuscire a dirlo con sincerità, allora, in spirito di umiltà, siamo chiamati a chiedere la grazia di avere in noi la mente che era in Cristo Gesù (cfr. Fili. 2:5). Se invece riusciamo a dirlo con un certo grado di genuinità, ciò non è motivo di vanto; il nostro vanto è nella Croce di Nostro Signore Gesù Cristo (cfr. Gal. 6:14). Egli è il solo che può distaccarci da questo mondo transeunte, e attaccarci alla vita eterna, che è Lui stesso.

 

Nel caso in cui questo articolo fosse troppo astratto, ecco otto cose che possiamo fare per vivere meglio lo spirito di povertà, secondo la prima delle otto beatitudini annunciate da Nostro Signore: “Beati i poveri in spirito: perché di essi è il regno dei cieli” (Mt. 5:3). Alcune di queste idee sono abbastanza ovvie, ma questo elenco non vuole essere innovativo o profondo, quanto piuttosto suggerire mezzi utili e praticabili.

 

  1. Destina il 10% del tuo reddito come decima, prima di ogni altro calcolo di risparmio. Fallo spontaneamente, senza questionare, come segno fondamentale di fiducia nella Divina Provvidenza, e come modo concreto per ringraziarLo per quanto Egli ci dona. Questa decima puoi destinarla ai poveri, alla Chiesa, agli ordini religiosi. Per quanto la decima non sia più questione di precetto divino, essa rimane un potente simbolo e una forma pratica di cosa significhi essere discepoli sul piano economico. È un modo per proclamare che aiutare il popolo di Dio ed edificare il Suo regno hanno la precedenza sulla costruzione del mio piccolo dominio. L’unico caso in cui donare la decima sarebbe inappropriato è quando si riceve un salario manifestamente inferiore a quello adeguato alle condizioni economiche del luogo. Ad esempio, quando più di metà della propria attività lavorativa è sostanzialmente svolta a titolo di volontariato. In questi casi, si sta già donando come decima il proprio tempo e i propri sforzi. Infine, i cattolici dovrebbero fare donazioni solo per cause conformi alla tradizione cattolica.

 

  1. Se sei sposato, ricordati di parlare, regolarmente, insieme a tua moglie e ai tuoi figli di che cos’è la povertà (spirituale e materiale), del perché Gesù ci chiede di praticarla e di come possiamo esercitarla secondo il nostro stato di vita. Chiedi pure i loro consigli. A volte, i nostri riescono a vedere, molto meglio di noi, quelle cose ingombranti di cui dovremmo disfarci; e, per quanto ci possa sembrare strano, anche i bambini hanno bisogno di adulti che li aiutino a restare semplici, a concentrarsi e a tenersi al di sopra delle cose del mondo, piuttosto che rimanervi invischiati. I bambini più grandi, poi, devono essere abituati a tenere sott’occhio le loro abitudini di spesa: quando si sommano videogiochi, cinema, merendine, bibite, e così via, si può arrivare nel complesso a una colossale perdita di tempo e denaro. Potrebbero sembrare piaceri innocenti, alla loro età, ma crescendo, uomini e donne non fanno altro che passare a giocattoli più grandi e più stimolanti. Le giuste abitudini si devono piantare presto.

 

  1. Prendi la ferma risoluzione di dedicare più tempo alla preghiera. E poi fallo. I laici d’oggi, in media, passano troppo tempo a lavorare e troppo poco a pregare (o, se è per questo, troppo poco tempo a fare qualcosa di veramente utile). Quel “andare nella propria stanza, chiudere la porta e pregare in segreto”, come dice Gesù, è il primo e più importante passo verso quella “povertà di spirito” che è il segno distintivo dei veri discepoli di Cristo; è il rimedio principe contro il materialismo, contro la preoccupazione per l’effimero.

 

  1. Prima di comprare qualsiasi cosa, chiediti chiaramente (e rispondi in modo onesto): ne ho davvero bisogno? Ne ho bisogno proprio ora? Inoltre, se possibile, compra cose usate o di seconda mano. In pratica, ogni vestito può essere trovato usato in condizioni uguali al nuovo, ma con un prezzo che è solo una frazione di quello originale. Intestardirsi sul fatto che si dovrebbero indossare solo abiti nuovi può essere una forma di autoindulgenza.

 

  1. Accontentati del meno o del poco in quelle aree della vita in cui l’abbondanza è costosa. Ad esempio, riduci il consumo di bevande alcoliche o delle sigarette, per lo meno durante l’Avvento e la Quaresima. Quando vai al lavoro, preparati il pranzo a casa invece di uscire a pranzo (almeno qualche volta). Limita i lussi: cosmetici, gioielli, abiti, aperitivi, etc. Alcuni di noi cattolici rimarrebbero stupiti a scoprire quante centinaia di euro spendono ogni anno per cose del genere, che di settimana in settimana possono sembrare poca cosa.

 

  1. In occasione di un anniversario o un’altra occasione speciale, fai una donazione a un monastero, o alla causa pro-life, invece di regalare gioielli, vacanze o cene eleganti. È un incredibile esempio del declino della carità cristiana il fatto che la maggior parte delle persone, compresi i cattolici praticanti, siano totalmente egocentriche (o “famiglia-centriche”) quando si tratta di come spendere la propria ricchezza in eccesso. Vale a dire, che non vogliamo spontaneamente donarequanto ci rimane dopo aver soddisfatto le nostre necessità; preferiamo piuttosto trovare modi nuovi e più eccitanti di spenderlo per noi stessi. E naturalmente, in una società capitalista, tutto il sistema della pubblicità si basa su questo desiderio perverso. Questo può essere davvero un punto per un serio esame di coscienza.

 

  1. In armonia con il nostro ruolo di custodi del creato e della nostra famiglia, cerchiamo di comprare cose di qualità migliore, che dureranno più a lungo; se possibile, compriamo cose che si possono utilizzare in modo permanente, piuttosto che prodotti usa e getta; e quando le cose si rompono, proviamo a ripararle o a farle riparare; non arrendiamoci alla cultura consumistica dell’usa e getta.

 

  1. Coltiva un giardino, insieme alla tua famiglia; anche solo delle piante in vaso sono meglio di niente. Spendiamo fiumi di denaro per frutta e verdura prodotte in massa, spesso insapore e rivestite di pesticidi, quando potremmo coltivarne un po’ nel nostro stesso giardino, traendone tra l’altro grandi benefici: sole e aria fresca, esercizio fisico, cibo biologico; e, per i bambini, un’ottima occasione per sviluppare un senso di responsabilità, e imparare qualche piccola lezione di scienza! In generale, ogni volta che sia possibile, opta per il “fai da te”, piuttosto che acquistare prodotti già pronti, o pagare altre persone per fare il lavoro che potresti fare tu. Tutto ciò richiede spesso un piccolo sacrificio di volontà personale: potrei non aver voglia di riparare qualcosa, anche se sono in grado di farlo. Eppure, è proprio in momenti come questi che entra in gioco la povertà di spirito: si inizia a essere poveri quando non ci si crede troppo importanti o impegnati per occuparsi delle piccole cose. Il distributismo prende sul serio le piccole cose: la dignità dell’individuo; la famiglia come unità fondamentale della società; la centralità dell’economia locale; il valore preminente del “qui ed ora” rispetto a ideali anemici o a grandi cause globali. Sotto questo aspetto, è un pensiero profondamente cristiano. Potremmo anche chiamarlo “incarnazionalismo economico” o “economia dell’incarnazione”. Proprio per questo motivo, è qualcosa che tutti noi possiamo iniziare a praticare immediatamente e con risultati tangibili, inclusa una capacità di accogliere nella nostra vita, in modo migliore e più coerente, quei molti beni che invece sono intangibili.

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