Viaggio Intorno al Presepe, ai Presepi. Ricordi di Benedetta De Vito
15 Dicembre 2020
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stirlum Curiae Benedetta De Vito ci ha mandato questo delicato, struggente racconto-ricordo del suo Natale di tanti anni fa, e del presepe. Buona lettura.
§§§
Attraversavamo metà Stivale, da Roma a Pordenone, pigiati nella Peugeot amaranto di mio padre, per raggiungere, in tempo per la Vigilia, il bel casolare rosa cipria di mia nonna, scivolato dalla tasca di un gigante buono nelle basse friulane. Splendeva, ai miei occhi bambini, l’autostrada del Sole, quasi appena nata. A Ferrara, l’odor nauseante delle marcite, giunti a Pian del Voglio, mio padre minacciava di far scendere i gemelli e quando il tabarro nero della sera scendeva a coprire la terra, cominciava, per mio fratello Marco e per me, la conta degli alberi di Natale e dei balconcini illuminati dalle sferette di luce variopinta che si accendevano una volta passata la Pianura Padana. All’arrivo, nello strider del ghiaietto sotto le gomme, esplodeva nel buio il profumo orientale del Calicanthus, c’era l’abbraccio della nonna e della Eva e c’erano gli zompi matti di Pippo il cane di casa con il suo pancino d’oro e il dorso bruno. Corri corri, bisogna fare il presepe perché la nonna così voleva. Che fossimo noi bambini a farlo insieme con lei…
Le valigie, i fagotti, panni e libri, domani, prima Gesù Bambino. Si preparava l’intorno, le montagne fatte di carta mimetica, ingrassate da giornali vecchi appallottolati, due palme sul dorso ammaccato, il cielo stellato, troppo stellato, fatto di carta lamé, appiccicato alla bell’e meglio con due pezzi di scotch, la capanna era sempre la stessa, col tettuccio spiovente e il ripostiglio per la legna. Erano vecchie le statuine di gesso, alcune mangiate dal tempo. L’asinello aveva le orecchie di feltro, al bue ne mancava una. Il mantello color castagna di San Giuseppe, in perfetta armonia con la tunica viola, era bianco da un lato e perdeva un poco di polvere. Fa niente, fa niente. La Madonnina, in rosa e celeste, era china, le braccia incrociate sul seno, in capo un velo bianco le copriva i capelli d’oro. Il Santo Bambino era tutt’uno con la mangiatoia e quello ero io, la più piccola di casa, a metterlo alla Mezzanotte tra mamma e papà, tra il bue e l’asinello. Tanti i pastori con le loro pecorelle e, lontani, in arrivo i Magi con un cammello a tre gambe…
Fuori, nel buio pece della notte, fischiavano i Basilischi, dentro, nel dolce teporino famigliare, nasceva il Bambinello. Era il Natale, mio, di tanti anni fa, quando tutti in casa preparavano il Presepe e si faceva a gara, a volte, a chi lo aveva più bello. Nei grandi magazzini si potevano comperare pezzetti di vita per renderlo più vero: il pane appena uscito dal forno, una fontanina che stillava acqua davvero, la famiglietta di papere da sistemar sul laghetto. Una tradizione che, nella mia piccola casa, resiste, anche se il figliolo non aiuta, come facevo io in entusiasmo e allegria… Pazienza e avanti nell’antico che è vivo. Pensate un poco che a inventare il Presepe, che significa, in semplice etimologia, “vicino alla siepe”, cioè area protetta, tranquilla, segreta, fu San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia, il Santo dei Santi, chiamato anche Alter Christus.
Era la notte di Natale del 1223 e in un paesino della Valle Santa, Greccio, in Sabina, Francesco, già vicino alla morte, celebrò l’Eucarestia davanti a una mangiatoia che aveva per guardiani il bue e l’asinello. Una Sacra rappresentazione che doveva far entrare i fedeli nel Mistero dell’Incarnazione. Fu il primo presepe: in ginocchio, in adorazione, nel venite adoremus, tutti divenuti pecorelle o pastori. Molti anni dopo, tra il 1290 e il 1291, Arnolfo di Cambio scolpì in marmo il primo presepe con Maria e il Bambino, San Giuseppe, i Re Magi, il bue e l’asinello, Ancora oggi il capolavoro marmoreo splende nella Basilica di Santa Maria Maggiore dove, come forse non tutti sanno, sono custodite le tavole della mangiatoia che fu culla del Bambinello. Il cuore palpita e chiudo gli occhi e mi pare anche io di essere lì, pecora io pure, nel freddo sabino che ben conosco, a Greccio dove, anni addietro sono andata, per vedere il luogo in cui nacque il Presepe. Non trovai che un bel paesino sabino, però…
A Roma per ammirare il presepe più bello, un presepe napoletano del Settecento, occorre recarsi alla Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, tenuta da frati francescani, che è ricamo sul Foro romano. La meraviglia della scena grandiosa mozza il fiato! Al centro, la Sacra famiglia, incorniciata da colonne con capitelli corinzi, e tutt’intorno un brulicare di vita. Il cavallo bianco di uno dei Re Magi sulle gambe di dietro, come innervosito da tanta umanità. E nel caos apparente, il cosmo. Il presepe napoletano, infatti, ha regole precise (sono sei in tutto) e al centro di esso non c’è la Grotta Santa, ma Benino, il pastorello dormiente il cui sogno è proprio la visione della notte Santa di Betlemme. I venditori, poi, devono essere dodici, come i mesi dell’anno. E non possono mancare il pescatore che ricorda San Pietro, il vinaio chiamato Cicci Bacco, come l’antica divinità pagana. Se poi, come è accaduto a me quando sono andata ad ammirarlo, non ne avete avuto abbastanza, pochi passi, e nella Chiesa stupenda dei Santi Quirico e Giulitta, che guarda sul Foro di Augusto, potrete visitare il Museo del Presepe. Piccolo, raccolto, ma pieno di capolavori e di amore per il Signore. Infine, per adorare il Santo Bambino non mancate di salir le ripide scale medievali della Chiesa dell’Ara Coeli, anch’essa francescana, che si innalza a fianco del Campidoglio, dove è custodita una copia (l’originale è stato rubato negli anni Novanta) del Bambinello, veneratissimo nella Roma dei Papi. Quando il Santo Bambino, scolpito dal legno di ulivo dell’orto del Getsemani, veniva portato in processione per le strade dell’Urbe persino il Pontefice si fermava per farlo passare…
Ed eccomi a occhi chiusi nella stupenda Basilica di Santa Maria sopra Minerva che per soffitto ha volte dipinte di stelle nel firmamento dormiente. Buia è la notte in cui si schiude il Mistero, buio è il ventre della Madonna, fatto chiesa, nel quale noi, in santa trasformazione, accogliamo il Signore che ci trasforma e ci plasma a sua Immagine. In imitazione, appunto, di Cristo. Sono lì, dunque, nella basilica domenicana e davanti alla bellissima Cappella Carafa, affrescata da Filippino Lippi. Accompagno una coppia di australiani e spiego loro gli arcani di Roma e le radici cristiane che splendono nelle chiese e anche, qui e lì, nelle strade, ricche di Madonnelle e altarini. In primo piano, al centro dell’affresco, l’Annunciazione e poi, in carrellata, l’Assunzione. Siamo anche noi nella scena, come prima davanti al Presepe, attraverso il Cardinale Carafa che, in ginocchio, assiste ai Grandi Misteri. Dietro di lui, tenendogli benevolo una mano sulla schiena c’è San Tommaso d’Aquino, il grande Santo domenicano, autore della Summa Theologiae, le cui storie sono raccontate in questa stessa cappella, ma ai lati e su su fino in cima… Ecco, il senso dell’arte sacra nostra è, per così dire, figliola del Presepe. I pittori, tutti, sapevano che per capire il Mistero, bisognava entrare in esso, perdersi, affogarvisi… Noi, pecorelle, pastori, noi il Cardinale Carafa.
Il cerchio si chiude, apro gli occhi, sono a casa. E torno al Presepe. Questa volta al mio, romano, piccolo piccolo, seduto su una sedia presa dalla cucina. La stalla ha una cometa di carta sul colmo, che luccica di porporina. Nel cielo due angioletti fatti da me con il Das. L’anno scorso, in un bel negozio in Via dei Coronari, ho acquistato, per farlo più bello, degli uccellini piccolissimi che poso ai piedi di Maria. Sono un pettirosso e un codirosso. Sì, i due uccelletti che, per cercar di liberare il Signore dall’atroce corona di spine, intinsero, macchiandole per sempre di rosso, le piume nel Sangue Preziosissimo di Nostro Signore.
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(Presepe artistico di Cigoli, a San Miniato)
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Categoria: Generale
Bellissimo racconto che mi conforta di quella bruttura che hanno messo in Piazza San Pietro.
Pure il guerriero nero e cornuto ci tocca.
https://www.liberoquotidiano.it/articolo_blog/blog/andrea-cionci/25534079/guerriero-presepe-castelli-a-san-pietro-ha-corna-e-un-teschio-in-fronte-media-censurano-pubblico-inferocito-insulti-social.html
“Ogni anno in Avvento ci chiediamo: cos’è il Natale? Il Presepe pare fatto apposta per risponderci. Ovviamente, se rappresenta fedelmente e comprensibilmente il Presepe evangelico.
Il nome innanzitutto: Presepe. La parola deriva dal latino “praesepium”, termine col quale san Girolamo ha tradotto il corrispondente termine greco (φάτνη, fàtne) che significa: “mangiatoia”. E’ dunque fedele al Vangelo il presepe che rappresenta una stalla per animali comuni come l’asino e il bue, con la loro mangiatoia o greppia.
C’è poi il Presepe originale, quello avvenuto 2000 anni fa, riportato dagli evangelisti.
Il Presepe di san Marco (il più sobrio) non descrive la nascita di Gesù, già compresa nelle prime sette parole del suo vangelo: “Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio”. Il Natale – ci dice – è innanzitutto un atto di fede che vede nel Bambino di Betlemme il Figlio di Dio. Senza fede non c’è Natale cristiano.
Il Presepe di san Matteo inizia ad animarsi di personaggi: la Vergine, s. Giuseppe, la stella, i Magi, Erode e la sua corte.
Il Presepe di san Luca è ancora più dettagliato: ne ricorda il tempo, il censimento, il luogo, la mangiatoia dov’è deposto il Bambino, lo stupore dei Pastori, poi, per chi sa guardare con fede, l’irrompere della luce nel bel mezzo della notte, il canto di Angeli e del mondo celeste.
Il Presepe di s. Giovanni, infine, è racchiuso nel mistero dell’Incarnazione annunciato all’inizio del suo vangelo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare fra noi”.
C’è infine il Presepe di Greccio, il presepe vivente voluto da san Francesco d’Assisi, al quale il santo, unendosi alla popolazione, partecipa con commozione e solennità, in paramenti diaconali, per incontrare il Bambino nell’Eucaristia della Messa che vuole vi sia celebrata e abbia come greppia l’altare.
Il Natale dunque è fede in Cristo e accoglienza di Lui non più nella grotta ma nella Chiesa, soprattutto nei sacramenti, istituiti da Lui stesso per incontrarlo. Se celebrare il Natale è accogliere Cristo, vivere il Natale è testimoniarlo nella vita irradiandolo attorno a noi, nelle nostre parole e nelle nostre opere.
Ricostruiamo allora in noi stessi il Presepe: la fede della Vergine Maria, l’affetto di san Giuseppe, l’umiltà dei Pastori, i doni dei Magi, il canto degli Angeli e Santi, fra i quali i nostri cari defunti. Saremo così, per gli uomini che cercano Dio, la stella che porta al Bambino di Betlemme, cioè a Cristo, l’Emanuele, il Dio con noi. E saremo noi stessi un “presepe vivente”, il più vero e più bello.”
Bellissimo articolo!! Leggendo sembra di vedere ciò che l’autrice descrive. Grazie a Benedetta De Vito per la forte dolcezza dei ricordi e dei riferimenti.
Non voglio fare il laudator temporis acti (quei – direbbe Scarpe Grosse- che i seguta a menala coi temp endré ) ma visto che siamo in tema di ricordi, anch’io vi ricordo il mio.
A casa mia il presepio veniva allestito la sera della vigilia perché di cenone non se ne parlava nemmeno. La Vigilia di Natale era un giorno di magro e digiuno e, benché fosse il suo onomastico, mia madre preparava per la cena un umido di spinaci e lumache e niente altro. Dopo la frugale cena, mio padre (classe 1890) iniziava il lavoro. Andava nella legnaia in cantina e sceglieva alcuni ceppi di varia forma e misura con i quali improvvisava in un angolo del salotto un terreno montagnoso e la grotta. Il tutto veniva rivestito di muschio raccolto da me e dalle mie sorelle nel pomeriggio nei campi intorno alla nostra villetta. Era muschio verdissimo che si reperiva in abbondanza lungo le rive dei fossi o alla base dei gelsi. Poi iniziava la parte più divertente : la creazione del paesaggio, col castello di Re Erode in cima alla collina, le casupole sparpagliate qua e là, l’immancabile fontanella, il laghetto, e i personaggi vari, i pastori, le pecorelle. Infine si componeva la scena della grotta santa col bue e l’asinello sullo sfondo e le Statue di Maria e di San Giuseppe e del Bambino Gesù in primo piano. Di anno in anno il presepio aumentava di dimensioni perché Santa Lucia (il 13 dicembre) ci portava in dono, insieme con qualche dolcetto e qualche giocattolo, qualche pecorella o qualche nuova statuina per il presepio. E noi eravamo felici così.
Il suo Presepe mi è piaciuto: rievoca il mio, con un po’ di comprensibile nostalgia. Con simpatia, tralasciandone l’allestimento fatto con papà, fratello e sorelle (molto simile al suo), mi permetto di raccontarle un particolare del mio Presepe di allora. Mi immagini in una di queste sere (siamo nel XXI secolo), seduto in poltrona nella guardiola del reparto, appisolato per la stanchezza, mentre sogno di ritrovarmi nei giorni natalizi della mia infanzia (fine degli anni quaranta). Le descrivo il sogno.
“A mezzanotte, messo il vestito della festa, si va tutti alla Messa grande. Fa un gran freddo ma la Chiesa è vicina e le campane stanno ancora suonando. Col proseguire della Messa si crea un’atmosfera che rimarrà indimenticabile: innanzitutto la gioia infantile di sentire Gesù vicino e di riceverlo nel cuore, la spontaneità nel parlare con Lui e nel chiedergli o promettergli ancora una volta le cose buone di sempre. Poi, il profumo intenso dell’incenso e i canti natalizi. Infine, al termine, il Bambinello da baciare mettendosi tutti in fila, i complimenti e gli auguri che tutti si scambiano a vicenda, le poesie che i più piccoli, finita la Messa, recitano sul palco del presepio addobbato col tappeto rosso, davanti a tutti, sotto lo sguardo compiaciuto dei papà e delle mamme. I giorni successivi, anche se papà ha già ripreso il lavoro, conservano il clima natalizio. Nel pomeriggio passo un po’ di tempo appoggiato alla finestra con il naso che ne appanna i vetri, osservo la neve che fiocca, i passeri e un pettirosso che si sono posati sulla rete dell’orto. La sera, al rientro del papà, sentito il campanello, scendo le scale e corro verso di lui, che, appoggiata la bicicletta, mi solleva fra le braccia stropicciandomi con la neve ancora posata sul suo tabarro, mentre io, contento, gli tiro giù il cappello. Rientriamo in cucina. La cena è quasi pronta. Papà saluta la nonna, guarda verso la mamma, chiacchiera un po’ con noi, poi, senza dire neppure una parola, s’avvicina al Presepio, nel quale ciascuno di noi ha la propria statuina. Prende la mia e l’allontana dalla grotta avvicinando invece quelle di mio fratello e di una sorella. Rattristato, mi chiedo tra me e me: come ha fatto a sapere che oggi ho fatto arrabbiare la mamma? Chi può aver fatto la spia? E rimango un po’ imbronciato. La sera dopo però, tutto contento, lo vedo riavvicinare la mia statuina a Gesù Bambino. Oggi ho fatto il bravo. Lo so e, anche se non so come, lo sa certamente anche papà.”
A questo punto però squilla il telefono. Mi sveglio, faccio un gran respiro, mi rialzo dalla poltrona e rispondo. Mi cercano in reparto. Metto il camice e salgo. Uscendo dall’ascensore, che ti vedo? Un tizio tutto imbattuffolato e rubicondo nel suo berrettone da Babbo Natale! Ha in mano un orsacchiotto di peluche: è il regalo di un nonno moderno al nipotino che è venuto a trovare. Ho un groppo alla gola. Sono tornato ahimè nel ventunesimo secolo!
A questo punto, le confesso: come non essere, almeno di fronte ai Presepi del tempo d’oggi (perfino in Piazza San Pietro!) un “laudator temporis acti”? Mi perdoni la lunghezza e: Auguri
È il ricordo a fare la differenza, in questo frangente. Un ricordo coinvolgente che restituisce al cuore il Natale di una volta e che, di certo per la variabile temporale, non potrà mai più tornare identico nel vissuto.
È il Natale che ognuno si porta dentro; il mio non si discosta molto da quello raccontato, se non per il contesto geografico e familiare.
In questo caso, scusandomi con Dante per doverlo smentire, “ricordarsi del tempo felice nella miseria” non è affatto “maggior dolore”, ma un balsamo che lenisce una ferita.
Complimenti per questo racconto intenso come solo il Natale sa ispirare. Si ritrovano luci, strade, atmosfere, sguardi che rimangono impressi dentro di noi, e soprattutto la bellezza di una storia che ci appartiene, che ci fa muovere i primi passi verso il mistero entrando in quella grotta di Betlemme.
Se volete fare un presepe tradizionale a casa vostra potete trovare tutto il materiale occorrente, dalla capanna alle casette e alle statuine, rigorosamente tradizionali in una botteguccia in Vico Macelli di Soziglia. Basta scendere da via Garibaldi in piazza del ferro e poi proseguire per i Macelli di Soziglia.
La vedrete subito, perché di questi giorni c’è la coda. Covid permettendo.
Sempre Zena, s’intende.
Non è san Gregorio armeno, ma per noi è sufficiente.
Ed ecco, sempre a Genova, un’altra grandiosa opera d’arte visibile tutto l’anno.
L’ADORAZIONE DEI MAGI. Autore il fiammingo Joos Van Cleve.
Una tela cinquecentesca conservata in una cappella laterale della Chiesa di San Donato.
Niente funicolari, niente panorami mozzafiato, ma una chiesa romanica in pieno centro storico a pochi passi dalla centralissima piazza Matteotti.
La bellezza della Natività di Cristo nell’opulenza della ricchezza del cinquecento.
Ma se volete vedere un presepe moderno andate di sera a Manarola, una delle 5 terre.
Sono 200 le figure luminose che si stagliano sul buio della collina. Il presepe è nato per l’opera delle mani di un signore che veleggia oggi verso i 90 anni. Ha iniziato con la capanna e poi ha aggiunto anno dopo anno tutte le al tre figure.
Qui Zena. La nostra magnifica città, Scignuria.
Come Lei saprà, dottor Tosatti, il presepe ha sempre avuto una particolare importanza nelle chiese di Genova. Sono conservate con la cura dovuta alle opere d’arte, le splendide statuette lignee del Maragliano e della sua bottega. Ma se qualcuno vuol vedere un presepe genovese autentico in tutta la sua bellezza (non solo in periodo natalizio, ma durante tutto l’anno) può arrampicarsi su fino al Santuario della Monneþa, non lontano da una delle fermate della funicolare Zecca Righi.
Le statuette sono collocate nell’ambiente naturale della città, con case, chiese, facilmente riconoscibili. È un presepe enorme , ben conservato, disposto nelle varie scenografie della pianta ottagonale della parte inferiore della chiesa. Vale la pena di salire fin lassù.
Mia, che magùn…
Non capisco proprio. L’aggeggio infernale ha boicottato il nome più importante del mio intervento.
TRATTASI DEL SANTUARIO DELLA MADONNETTA, appunto sopra san Nicola e sotto il Righi…
Non pianga Tosatti, Zena l’aspetta a braccia aperte.
L’articolo della signora Benedetta mi ha stimolato.
Se anche ci sarà una sola persona che avrà la pazienza di accompagnarmi fino in fondo, la ringrazio fin d’ora. E così, lungo il percorso, visiteremo anche la Grotta di Betlemme.
Il simbolo dello specchio fa comprendere con facilità la natura della mente. Per recepire e concepire concetti e immagini la mente ha da essere in stessa se neutra, senza forma, proprio come lo specchio è in se stesso neutro, senza forma. La neutralità della mente come dello specchio consiste nel non prendere parte, nel non schierarsi, nel non giudizio, quindi il riflettere ciò che vi si riflette in quanto è quel che è, così com’è, infinitamente prima del sorgere di un qualsivoglia pensiero.
Recependo e concependo concetti e immagini la mente assume una forma (forma mentis). La forma che assume la mente non è la mente in sé, come l’oggetto riflesso nello specchio non è lo specchio in sé. La similitudine specchio/mente è oggettiva, e perciò trascende tanto i contenuti della mente quanto le dialettiche di ogni tipo che ne derivano. E’ incontestabile e verificabile da chiunque in prima persona: la mente espleta la funzione dialettica grazie ai concetti e alle immagini che recepisce e concepisce.
Ora, tanto la mente della persona ignorante quanto quella della persona colta sono occupate in continuazione da concetti e immagini che ne costituiscono la forma: la prima, occupata e formata dall’esclusività dell’informazione (in-formazione) ordinaria e banale, la seconda, dall’esclusività dell’informazione culturale, sia essa religiosa, filosofica, artistica, scientifica, storica, ideologica e via dicendo. Di poi, entrambe le forme mentis sono intessute, alla lettera, con passioni, desideri, delusioni, preferenze, rifiuti e idee irrinunciabili che ne restringono lo sguardo alla propria prospettiva individualistica, ritenuta istintivamente la più veritiera o quantomeno la più verosimile.
La persona ignorante proietta la sua ignoranza sul mondo (persone, cose e situazioni) e così vede un mondo in quanto riflesso della sua propria ignoranza; la persona colta proietta sul mondo la sua cultura e così vede il mondo in quanto riflesso della sua propria cultura. Pertanto nessuna delle due vede il mondo così com’è, quindi davvero oggettivamente, dato che il mondo è … il mondo, e non è né ignorante né colto, esattamente come non sono né ignoranti né colti lo specchio e la mente. Il mondo e la mente sono oltre l’ignoranza e la cultura, che costituiscono una sovrastruttura psichica: entrambe occupano la mente e appiccicano le rispettive e molteplici etichette al mondo, che così viene visto attraverso un’interpretazione e non così com’è, l’inter-pretazione essendo un’inter-posizione, una descrizione mediatrice, ignorante o colta che sia.
Ma bastano pochi secondi di rapimento estatico nel contemplare la luna e le stelle in una limpida notte, o qualsiasi altra magnificenza del Creato, ad esempio un bambino che gioca, il volo di un gabbiano, il gorgogliare di un ruscello, per rendersi conto di come l’interpretazione, ignorante o colta che sia, non abbia alcuna voce in capitolo. Per essere recepito e concepito quale veramente è, l’oggettivo esige un soggetto puro, esente da orpelli concettuali, immaginativi e passionali, ignoranti o colti che siano.
Dice il sufi Jalal al-Din Rumi:
“Tutto quanto concerne l’Anima si svela spontaneamente
ed ogni sforzo razionale non fa che allontanarla.
Questo perché la sua natura non è fenomenica.
Si coglie col cuore come una poesia, come un’opera d’arte.
Si sente, si ama, ma nessun concetto, come ombra fugace, è ad essa adeguato”.
È bene ribadirlo: uno specchio nitido riflette fedelmente ciò che vi si specchia. Non c’è mediazione ignorante o culturale tra lo specchio riflettente e l’oggetto riflesso. Specchio e immagine sono distinti ma non separati, ossia sono non-due. Il concetto e il pensiero sono di per se stessi intrusioni appannanti che interdicono la pura riflessione dello specchio e perciò deturpano l’immagine dell’oggetto riflesso, che non è né ignorante né colto, esattamente come lo specchio, che sfugge a ogni tentativo di descrizione.
Troviamo infatti ne “Il Canto dello Specchio Prezioso della Mente Pura” (trattato cinese del IX secolo, in giapponese Hokyo Zammai):
“Questo specchio prezioso è l’insegnamento di Ciò che realmente È.
Ora lo possiedi. Preservalo con cura.
Sappi che già il cercare di definirlo con parole anche appropriate
lo offusca”.
Il mondo e lo specchio della mente si trovano rigorosamente oltre ogni rappresentazione concettuale o immaginativa, influenzata dalle passioni, che possa operarne la mente umana. Di conseguenza, nessuna inquadratura logica, razionale, scientifica, religiosa e dogmatica, parlata o scritta che sia, può davvero render conto del mondo in quanto non ne è che una descrizione, verosimile quanto si vuole ma pur sempre una descrizione, essendo innegabile che le descrizioni degli oggetti non sono gli oggetti in sé: i nomi non sono le cose nominate bensì semplicemente li indicano e quindi sono conseguenti ad esse:
“con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: «Nomina sunt consequentia rerum». (Dante, Vita Nuova XIII, 4).
“Or il Signore Iddio aveva già formato dalla terra tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo. Li condusse quindi da Adamo per vedere con qual nome li avrebbe chiamati; poiché quel nome che egli avrebbe imposto ad ogni animale vivente quello fosse il suo nome. (Genesi 2, 19).
Questo passo biblico suggerisce come i nomi siano, sì, intrinsecamente legati agli oggetti che designano, ma soprattutto come l’oggetto sia prima del suo nome. La nomenclatura necessita dell’oggettistica. Mentre è possibile un oggetto senza nome, cioè privo di distinzione, non è possibile un nome senza oggetto. Il neonato è prima del nome che gli viene imposto nel Battesimo. Senza un oggetto da nominare il nome resta muto. E lo specchio della mente di Adamo (né ignorante né colta) doveva essere davvero nitido, incondizionato, se ha potuto vedere gli animali e gli uccelli così come sono e quindi “battezzarli” con il nome appropriato!
È da notare come in Genesi 3, il primo a pensare e parlare dopo Dio sia proprio il serpente, “la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio”. Il pensiero/parola del serpente si intromette tra Dio e i Progenitori, e per prima la donna accetta la dialettica attraverso la quale viene indotta a pensare al vantaggio (inesistente) del mangiare la mela. È perciò la dialettica (dia-lettica) che contrappone tesi e antitesi, sicché, si può dire, alla Tesi divina il serpente contrappone la sua antitesi ribelle, inducendo i Progenitori a pensare di essere mancanti di qualcosa, facendo così insorgere in loro il desiderio e perciò l’ego, l’identità posticcia che si accaparra (illusoriamente) la prerogativa divina.
L’illusione di comprendere e manipolare il mondo attraverso il pensiero, proiettando sul mondo stesso una rete di concetti, misure ed immagini entro cui imprigionarlo e dominarlo, è la causa dei conflitti, la proiezione essendo soggettiva e quindi limitata, dunque essenzialmente falsa e destinata allo scontro dialettico. Scontro,, è da precisare, non fra menti diverse la cui natura neutra, è la medesima e quindi le accomuna, ma fra mondi diversi proiettati dalle menti occupate e diversificate da ignoranza o cultura.
Le montagne di libri di ogni specie scritti da secoli e secoli, e che continuano ed essere scritti, non sono che descrizioni più o meno particolareggiate e approssimative, quindi mai identificative, di un Qualcosa di proteiforme, se Proteo, come ce lo presenta la mitologia greca, è la divinità che ha la facoltà di assumere qualsiasi forma per sottrarsi a chi lo interroga.
Infatti Lao Tze dice:
“Il Tao (la Via, il Principio) di cui si può parlare non è il Tao”.
In “Ora serrata retinae” il poeta Valerio Magrelli osserva acutamente a proposito della scrittura:
«La scrittura / non è specchio, piuttosto / il vetro zigrinato delle docce, / dove il corpo si sgretola / e solo la sua ombra traspare / incerta ma reale. / E non si riconosce chi si lava / ma soltanto il suo gesto. / Perciò che importa / vedere dietro la filigrana, / se io sono il falsario / e solo la filigrana è il mio lavoro».
Gli ignoranti Pastori ed i colti Magi suggeriscono la possibilità che trascende l’ignoranza e la cultura. Di fronte al Bambino/Sole lo sguardo ammirato degli uni come degli altri è un sguardo diretto, immediato, anagogico, scevro da puntelli cogitativi, ignoranti o colti che siano. Lo specchio dell’anima dei Pastori e dei Magi è nitido, sgombro, vuoto, ciò che permette loro di riflettere il Bambino/Sole così com’è, in unione mistica con Lui che lo riempie di Luce in quanto Sole “sorto dall’alto”, quindi irraggiungibile dal basso di qualsiasi escogitazione della mente umana.
Di fronte al Bambino/Sole i Magi non si danno ad una speculazione cerebro-intellettuale bensì compiono un gesto corporeo: si prostrano in adorazione, e ad-orare significa porgere la bocca al bacio mistico, ciò essendo possibile perché lo specchio dell’anima dei Magi è vergine: Speculum Justitiae.
Alla Luce del Bambino/Sole le identità del Pastore e del Mago scompaiono poiché trasfigurate. Se conoscere significa essere, il pensare non può essere l’essere bensì soltanto una sua soggettiva, “zigrinata” descrizione, e perciò il pensare è due volte estraneo all’essere: una volta in quanto descrizione e una volta in quanto soggettivo.
L’atmosfera del Presepe è permeata di sacro silenzio: i Pastori e i Magi non hanno nulla da pensare e da dire: la Luce divina domina la scena, il chiasso umano è trasceso e l’unico suono udibile è il canto degli Angeli: “Gloria in excelsis Deo et in terra hominibus bonae voluntatis”. Canto anti-dialettico, dal momento che Gloria celeste e Pace umana escludono ogni intrusione del pensiero, fatto di ignoranza, di cultura e di passioni.
Ancora il sufi Jalal ad-din Rumi dice:
“L’indagine della ragione, anche se abbia il pregio della perla o del corallo, è cosa molto diversa dall’indagine dell’anima”.
E in sant’Agostino troviamo:
“Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione”.
Il Padre della Chiesa viene a dirci – con pochissime parole – quale è l’indagine indispensabile che ha da compiersi: trascendere se stessi, ossia la mutevolezza cogito-passionale con la quale ci si identifica, cioè la fenomenologia dell’anima, onde potersi RACCOGLIERE e, per dir così, convergere verso il Punto anagogico, ultra fenomenologico, impensabile, indicibile e perciò “oscuro” per la mente umana; Punto Reale, che si trova oltre la cortina del pensiero, della ragione, della logica, dei sentimenti e delle passioni. Oltre l’ignoranza e la cultura.
Preziosissima esortazione: “tendi là dove si accende la stessa luce della ragione”! C’è dunque un “luogo” donde nascono il pensiero, la ragione, la logica, e questo “luogo” è il Totalmente Altro, il Senza Nome, il Tao, lo Specchio, l’Assoluto, il Principio, il Verbo, insomma, per dirla con Maestro Eckhart, l’indicibile abisso della Divinità (Gottheit). Una sola Divinità che “precede” i suoi tre Nomi: Padre, Figlio e Spirito Santo, Tre Persone uguali e distinte dai Nomi conseguenti all’Unica Divinità.
Ehm….
Grazie, Marco sensei, per avermi accompagnato.
Il suo “Ehm…” è un incipit che mi lascia piacevolmente curioso di quel che segue.😊
Quando un Ehm vale più di mille parole….. E alcuni puntini vogliono dire che ci troviamo di fronte ad un caso limite di QI in cui il QI = limite per x tendente ad infinito della funzione 1/x.
SE, quello che hai scritto, per me che sono ignorante in materia, è dialetto cispadano del quarto secolo a. C.
Vorresti smollicare la pagnotta di granito che hai ammannito?😄
E’ un ballon d’esssai per saggiare la tua conoscenza in materia e la tua risposta è chiarissima. Se nel tuo entourage c’è qualche studente del liceo scientifico, fattelo spiegare: ti assicuro che è molto più facile da capire del tuo commento (?) all’articolo della De Vito.
QI=0
Mi dispiace, Nippo.
Ho solo calcolato il limite, non offenderti.
TRADOTTO: io non capisco voi e voi non capite me
Cosa c’è di più aperto all’infinito?
E nell’infinito che calcoli possono farsi?
Appunto, Nippo, l’infinito è talmente grande che il suo inverso (=1/infinito) non può essere che zero.
Interessante: lo Zero, il Cerchio, il Vuoto, il Nulla, Dio!
Ho letto la prima parte del commento, molto bello, mi riservo di riscrivere dopo aver approfondito meglio. Solo un pensiero, molto a margine, che il concetto di specchio mi ha fatto ritornare in mente.
La maggior parte degli oggetti in natura non coincidono con la loro immagine speculare, e si dice per questo che abbiano chiralità, per distinguere le due forme vengono spesso chiamati “destrorsi” o “sinistrorsi”. Esistono però anche entità che, manifestando una perfetta simmetria, non hanno la proprietà della chiralità; tali entità, quando vengono riflesse dallo specchio, risultano indistinguibili dall’oggetto originario: ad esempio le sfere e i triangoli equilateri, queste entità non sono chirali bensì achirali, perché non c’è prevalenza di uno dei due elementi della relazione. Le stesse relazioni giuridiche (diritto-dovere, potere-soggezione) si comporterebbero come le sfere e i triangoli equilateri e sarebbero pertanto achirali.
Mi chiedo se la mente sia chirale o achirale. 🙂
NB – Per la tematica della chiralità ho liberamente tratto spunto da L. Lombardi Vallauri, “Logos dell’essere, logos del diritto”.
Mi sembra che la mente sia chirale e achirale insieme: chirale per i lati, achirale per i vertici e le basi. La semisfera destra o il cateto destro risultano invertiti, cioè a sinistra dello specchio della mente che vede, mentre il vertice e la base tanto della sfera quanto del triangolo restano in alto e in basso. Lo stesso per una persona: il braccio destro si riflette a sinistra nello specchio e viceversa.
Ho detto specchio della mente che “vede” perché oltre a vedere, lo specchio ode, tocca, odora e gusta, e riguardo a questi quattro atti soltanto il tatto è chirale (toccando una sfera concepisco come sinistra la semisfera destra e viceversa), mentre gli odori e i sapori, non avendo forma, sono né chirali né achirali.
La questione è di un certo interesse, ma, come anche tu hai detto, è molto a margine di quanto ci interessa in ordine alla purezza/neutralità interiore.
Grazie Enrico per il contributo. A mio modesto avviso il tema della indistinguibilità tra la mente e ciò che noi pensiamo di essa non è di poca importanza. Comunque ammetterai che non è facile in un blog costruire discorsi sulla mente che siano esaustivi.
Sbaglio a dire che il tuo “sentire” è vicino all’apofatismo? (Soprattutto alle evoluzioni dell’apofatismo che portano al silenzio, anche come metodologia).
Hai centrato il bersaglio. Apofasia. Negazione. Annientamento della mente. Silenzio. Trascendenza. Salto anagogico.
Insomma, morte dell’umano e sua rigenerazione ad opera della Potenza Divina.
E, per quel che posso dirne per la mia pur infima esperienza, non c’è altra via.
Sta scritto pure nel Vangelo: se il chicco di grano nn muore …