PORFIRI: TRADIZIONE È GREGORIANO E POLIFONIA. SENZA ESTREMISMI.

9 Luglio 2020 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Carissimi Stilumcuriali, il M° Aurelio Porfiri ci ha inviato un’altra riflessione su musica sacra e liturgia, legata come le precedenti alla Sacrosanctum Concilium. Buona lettura.

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Verso la Tradizione

Molti, musicisti e non, identificano LA tradizione musicale della Chiesa cattolica con il gregoriano e la polifonia. Come abbiamo visto, questa posizione fu, se non avallata, perlomeno incoraggiata dalle parole del magistero ecclesiastico almeno fino a Pio XII, ma anche nel magistero successivo. Questa posizione ha una motivazione molto importante, che non va di certo dimenticata o tralasciata. Quindi, è chiara posizione di chi scrive, difendere questa scelta, senza farla diventare una ideologia estremista. Ma è possibile oggi dare uno sguardo diverso a questo problema? Forse, semza dimenticare quello che ho appena premesso.

Innanzitutto il magistero agiva secondo la necessità dei tempi; per uscire dal “bagno” operistico dell’ottocento, c’era bisogno di modelli forti che servissero per orientare le sorti della musica liturgica su altre sponde. Quindi il gregoriano e la polifonia si prestavano perfettamente a questo scopo. Ma ancora oggi possiamo parlare di essi come della Tradizione tout court? Qui il problema si fa un poco più complesso. E si fa più complesso proprio per rispetto verso il canto gregoriano e la grande polifonia, che se visti come modelli intoccabili e inarrivabili, verrebbero praticamente trasformati in elementi aridi. In realtà così non è e non è mai stato, se pensiamo che la polifonia è derivata proprio dal canto gregoriano. Quindi, teoricamente, bisogna sempre essere aperti a ciò che di bello, buono e vero, può germinare da repertori precedenti.

Cos’è la Tradizione? Tutti si attaccano prima o poi a questa parola, ma credo che pochi saprebbero renderne conto se interrogati. Giustamente viene detto: “la Tradizione solitamente è elogiata o confutata, è vissuta o negata, ma difficilmente è stata tematizzata” (Marcello Veneziani, “Di padre in figlio – Elogio della Tradizione”, Editori Laterza – Roma 2002, pag. XV. Questo testo mi servirà da base per il mio tentativo di definire la tradizione. La sua tematizzazione dell’argomento è stata per me illuminante e di questo sento un debito profondo con l’autore). La tradizione è “tradere”, cioè trasmettere, è una staffetta tra ieri e oggi, è un dono che il passato fa al futuro. La tradizione è una rivincita sul nulla, una posizione diversa rispetto all’annullamento delle cose e delle persone nel fluire dei secoli. Essa sopravvive ai tempi e cavalca sui giorni per il tempo che le è destinato; “la Tradizione come connessione a una rete” (M. Veneziani, op. cit. pag. 7), potremmo dire in tempo di internet. Ma non tutte le tradizioni, naturalmente, sono sullo stesso livello: ci sono quelle universali e vitali, le quali rendono possibile l’esistenza stessa di una società (linguaggio, religione, famiglia); ci sono quelle universali ma che non sono vitali, attraverso le quali una società dà un segno forte del livello da lei raggiunto ma che di per sé non sono indispensabili all’esistere (arte, filosofia, politica, scienza); ci sono quelle vitali ma non universali, che ritroviamo nella vita di tutti i giorni (consuetudini, costumi, pregiudizi); ci sono quelle né universali né vitali, che sono il “colore” che ogni società si dà, pur se importante (gastronomia, folklore, attività ludiche). Questa divisione, ci dice subito che non ogni tradizione può essere uguale all’altra; certo, la tradizione religiosa di un popolo (p.e. l’Italia e il cattolicesimo) ne costituisce un elemento base dell’esistere, sia che sia accettata, sia che sia rifiutata. La tradizione del panettone a Natale non è naturalmente la stessa cosa…

In generale, la tradizione è ciò che permette la sopravvivenza delle “persistenze”, di ciò che sopravvive al destino mortale delle cose umane. Queste persistenze vivono nel particolare storico, ma non sono il particolare storico. L’ascolto della Parola di Dio fa certamente parte di un’antichissima Tradizione della Chiesa (banalizzo per farmi capire) ma il suo modo di essere storico è solo un momento della sua “evoluzione”. Un tempo era cantata, un tempo declamata in latino, oggi letta in Italiano…ma il dato che persiste è la Parola di Dio nella celebrazione. Quale è quindi la persistenza da evidenziare nella tradizione musicale della Chiesa? Da questa risposta dipende tutto il resto. Innanzitutto la musica della Chiesa non può e non deve prescindere dall’essere fortemente legata al discorso celebrativo, anche in senso storico (cioè ogni Tradizione si incarna o no, nel periodo concreto in cui viene evocata). Non si può pensare ad un discorso sulla musica “sacra” separato da quello liturgico. E un primo rilievo deve essere fatto: abbiamo troppo storicizzato la Tradizione (per meglio dire, abbiamo tentato di imprigionarla in alcune sue manifestazioni). In questo concorrono varie cause. Una è sicuramente quella dell’influsso del romanticismo già visto prima, per cui si doveva ricorrere ad un tempo beato a cui  anelare. In quel tempo ci piace vedere la scaturigine della Tradizione, che sarà naturalmente buona e santa. Un’altra causa è data dalla mentalità italiana ma anche europea del “bene culturale”. L’isolare necessario dell’opera d’arte (in musei o concerti), togliendola dal suo contesto vitale spesso ne fuorvia l’intimo significato di esistenza. Eseguire un canto gregoriano in concerto non è per niente lo stesso che ascoltarlo nella celebrazione, scopo per cui è nato; nel primo caso avremo un’esperienza di tipo musicale-estetica, nel secondo caso un’esperienza di tipo liturgico (perché il musicale è già contenuto nel liturgico). L’isolare del “bene culturale”, spesso porta a “mitizzare”, a ricoprire di un manto quasi religioso l’opera d’arte. In certi casi la ricopriamo di significati che non le appartengono. Il cercare di delimitare in un elemento “tematizzabile”, è una tendenza anche comprensibile e insita nel bisogno di capire, di circoscrivere. Ma le gabbie talvolta non sono un buon servizio e anzi rischiano di nuocere più che giovare. Voler isolare tradizioni particolari per assolutizzarle, anche se gloriose, è come estirpare una pianta dal suo contesto vitale. Dopo poco la sua vita comincia a svanire. Il bello deve farsi seme di bello.

La Tradizione non è alle nostre spalle, ma davanti a noi. Essa non è nel passato ma all’origine. Leggiamo: “Non c’è nulla di più antitradizionale che credere all’usura ontologica compiuta attraverso il tempo. E’ come confondere l’eternità con l’invecchiamento. Quando la Tradizione volge le spalle all’avvenire s’incanutisce, si incupisce, si sclerotizza, curvandosi su se stessa e suicidandosi come tradizione. E poi andare a ritroso nel tempo, alla ricerca dell’età dell’oro, è un procedere all’infinito. C’è sempre un passato più passato da rimpiangere. La Tradizione è quel che resta dopo la catastrofe, non quel che brillava prima della catastrofe e si è poi spento. A patto di aggiungere che  quel che resta dopo la catastrofe non sono le reliquie, cioè le rovine del passato che hanno resistito alle intemperie della natura e agli scempi dell’uomo, ma quel che la catastrofe non è riuscita a violare. A Segesta, a Selinunte, nella Valle dei Templi e in mille altre località ove è possibile contemplare le tracce di un luogo sacro, la Tradizione non è la colonna che resiste, spezzata, all’ingiuria del tempo o alla distruzione: è l’aura che ancora promana, il genius loci, la Forma che si avverte nel suo insieme e che non si esprime in una pietra o in un capitello a sé stanti. La Tradizione è l’essere nel divenire”  (M. Veneziani, op. cit. pagg. 9-10). E a noi cosa rimane dopo la catastrofe dei recenti decenni post conciliari? È una domanda non facile da rispondere. In quanto la tradizione è stata praticamente non solo cancellata, ma anche direttamente opposta. Certo non tutto era tradizione, ma certamente molto di ciò che veniva considerato come appartenente alla tradizione è stato visto con sospetto, se non con ostilità.

Quello che cerchiamo nella Tradizione non è un ricordo ma una continuità, la possibilità di innalzarci ancora una volta sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto e farci vedere più lontano di loro. Quindi la Tradizione non è in un solo momento storico, ma vive nella storia ed è quindi vitale. Come definirei la Tradizione musicale della Chiesa? Osservando le persistenze, direi che le nuove composizioni liturgiche sono veramente secondo la Tradizione quando osservano almeno alcuni principi: l’assoluta pertinenza al rito, non solo in generale, ma soprattutto nei singoli momenti rituali (pertinenza che sia formale, di linguaggio, di carattere, di andamento, testuale, psicologica…). Osservato questo, che sia anche musica che muove, bellezza che interpella, movimento che coinvolge. Si può fare un canto di comunione perfettamente adeguato nel tempo e nella forma al rito in cui si muove ma che risulta freddo, inespressivo. Ecco, a me sembra che la tradizione musicale della Chiesa si colloca esattamente in questo punto, nell’unione tra l’utile e il  bello inteso in senso estetico/estatico, nella costrizione della forma che si libera nei cieli dell’ispirazione, nelle esigenze rituali che disciplinano le insubordinazioni del sacro.

Il gregoriano e la polifonia rinascimentale hanno fatto esattamente questo, ma sono stati un momento della catena, non la catena stessa. Ancora ci vogliono parlare e ancora possono dare tanto, soprattutto perché sono un mezzo di arricchimento profondo della nostra esperienza liturgica, non una catena che ci avvince ad un passato che non può e non deve tornare se inteso come ripetizione di ciò che non è più.

Aurelio Porfiri

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6 commenti

  • Iginio ha detto:

    Sagge osservazioni del maestro Porfiri a proposito del concetto di tradizione che non va confuso col tradizionalismo (condannato, pensate un po’, da Gregorio XVI), ossia col credere una cosa solo perché tramandata dalla Tradizione e non per assenso razionale.
    Da far meditare ai pliniani sedicenti tradizionalisti che fanno un confuso miscuglio di Guénon, Plinio e Carlo Alianello.

  • Lorenz ha detto:

    Quand’ero studente, scopersi per caso il gregoriano. Per me si dischiuse una consapevolezza che il tempo avrebbe confermato vera; la tradizione non era solo quel flusso ininterrotto reso vitale tutt’oggi dalla creatività carismatica di un’attuale autorità sopravvivente, e tuttavia flusso allora irrimediabilmente trasformantesi rispetto a un’origine inattingibile. No. Si era data, invece, una gestazione generazionale, ampia ma non interminata, la quale permise alla Chiesa che fu giovane di pervenire alla statura del suo Signore. E fu l’Apocalisse. E il canto nuovo dell’Agnello. E le memoria semitiche del Vangelo, prima di scomparire per sempre, riconfluirono sul precoce palinsesto di versione greca, ed avemmo la Rivelazione latina.
    Maestro Aurelio, nella cose che oggi cerca di ripetere, è in ottima compagnia, si ritrova con Veneziani, ma financo con il pensiero ricorrente di un Ratzinger, e in genere con il senso comune che certuni direbbero anche modernista. Una postura intellettuale che si può ben comprendere a partire da quanto la precede, ossia l’opposta pregiudiziale fondamentalista che il lascito fondativo lo fosse tutto immediamente nell’Annunciazione apostolica, e che non ci sarebbe stato dato l’indugio della dilazione apocalittica.
    Ma potessimo, a partire da ciò provare adesso a ripensare radicalmente cosa doveva aver animato quella riforma intimata da Pio X che sostanzialmente mirava al gregoriano, e non, alla polifonia. C’è una monodia che sa far immediatamente scaturire dalla scomposizione del proprio stesso suono un’armonia di dissonanze, ed è qualcosa di perennemente giovane, è il futuro eterno che ci attende. Da tempo…non è tempo di mezzo misure, nelle cose che valgono, ormai non si è mai abbastanza estremisti…ma, per la grazia di Cristo, vale proprio per questo la pena, ora, di riprovarci, Passa, la scena di questo mondo.

  • f. Marie des anges ha detto:

    Il primo esempio addotto non calza: “L’ascolto della Parola di Dio fa certamente parte di un’antichissima Tradizione della Chiesa” (questo è un modo tipicamente moderno e ‘pastorale’ di leggere la liturgia, estraneo alla tradizione della Chiesa sia di oriente che d’occidente: nella liturgia si ha la proclamazione solenne della parola di Dio, all’universo e nella storia. E’ un evento che si ripete non un momento di catechesi. Inoltre parlare dell’ascolto in questo senso confina la parola di Dio nella liturgia al momento delle letture, mentre pressochè tutta la liturgia è parola di Dio: pensiamo alle parole consacratorie, che fanno parte degli ipsissima verba, o ai salmi, sopravvissuti nel Novus ordo in minima misura ma presenti in abbondanza nel Vetus Ordo e nelle liturgie orientali) “….. ma il suo modo di essere storico è solo un momento della sua “evoluzione”. Un tempo era cantata, un tempo declamata in latino, oggi letta in Italiano…(anche questo dividere in un olim… se hodie manifesta una concentrazione esclusiva sul Novus ordo romano e sulle sua pratiche modalità celebrative: anche oggi, volendo, e dove lo si vuole avviene, le letture sono cantate in latino, conservando il carattere della proclamazione solenne che marca la differenza fra un meno ‘alto’ momento di lectio divina e un più alto momento di avvenimento liturgico. Questo non avviene quasi mai nel Novus ordo (ma il pontificato di Joseph Ratzinger ci ha insegnato che può avvenire), ma è la norma (obbligatoria – si legga Universae Ecclesiae), nella forma straordinaria) e nei riti orientali. Mi sembra quindi difficile che da un esempio di partenza così non centrato si possa arrivare a conclusioni buone. Però leggerò l’articolo sino in fondo….

  • massimo trevia ha detto:

    Tutto giusto, ma oltre a questo bisogna anche porsi una domanda:cosa e’ che rende la musica “sacra” e liturgica?Non e’ che sia piu’ o meno “bella”:una sinfonia di Beethoven non lo e’,pur intrisa di sentimento davvero sacrale; ma dello stesso Beethoven,pur non potendola usare liturgicamente,lo e’ la “missa solemnis”…..che Lui scrisse dopo lo studio di Palestrina ed altri.Gli esempi potrebbero continuare,e per essere conciso ecco cosa fa “sacra”o meno una musica:lo “stile severo”!Non e’ pero’ semplicemente una pia intenzione di “essere severi”nello scrivere musica,ma un insieme di norme molto rigide che pero’, invece di ingabbiare la “ispirazione”,la liberano e fanno sentire a chi ascolta che la tale composizione”parla a Dio”,anche a nome di chi solo ascolta(ovvio che questo porta a pregare),esattamente come una serenata ad una bella ragazza ci fa capire all’istante che e’ una musica fatta per quello!!!Tale stile fu creato non in poco tempo e prese le mosse già’ nel medioevo, dopo (eravamo ovviamente anche qui nel medioevo)la decadenza del gregoriano, attorno all’ottavo o forse nono secolo d.C. onestamente non so quando nacque il termine”stile severo”,ma al di la’ del valore di una composizione(capolavoro o meno),se essa e’ composta in “stile severo”,noi all’istante capiamo che e’ “sacra”.capiamo che “parla a dio”!Percepiamo questo all’istante,perche’ lo”stile severo”ha in se’ le due caratteristiche che nei secoli ha sempre avuto la vera musica “sacra”:un distacco ,ma non nel senso di “freddo”:esattamente quello che e’ Dio:”Altro”da noi ma fatto uomo! Distaccato ma non freddo:morto per noi! Senza queste caratteristiche, che al meglio esprime lo “stile severo”,si potrà’ al massimo parlare di una bella e significativa canzone che esprime sinceramente l’esperienza cristiana dell’autorete che io anche magari apprezzo, ma questa e’ sempre ancora incentrata sul “se’ “del compositore!Mi porta’ anche piacere,ma non e’ musica “altra”:non esprime le caratteristiche che prima dicevo, di Dio! E sarà’ come “impantanata”nella moda estetica del momento!Purtroppo e’ il caso del 99%delle musiche che oggi sentiamo nelle messe, con questa ipocrisia(un esempio):”Ah che bello “victimae paschali laudes”!E allora, dico:perche’ non la si canta ma la si recita solo?Risposta:”EEEEH”…..”.Spero di essere stato utile:studiando da una vita organo eccetera cerco di capire le cose!!!!!

  • Enrico ha detto:

    Ritengo che in questo clima tenebroso, caotico e puzzolente di zolfo ci sia bisogno di un po’ di luce.

    «La tradizione è “tradere”, cioè trasmettere», ci ricorda il M° Porfiri. E allora ecco un bellissimo brano decisamente tradizionale e in tono con i tempi che stiamo vivendo.

    La citazione è da Jean Hani, IL SIMBOLISMO DEL TEMPIO CRISTIANO.

    «Preso nel suo aspetto solare, il Cristo ha due attributi essenziali: la luce e il calore, la luce della Saggezza e il calore dell’Amore, i due attributi che presiedono alla creazione e alla rivelazione. Cristo si rivela a noi come l’Intelligenza universale che concepisce tutti gli esseri illuminandoli con i raggi del suo Essere e come l’Amore infinito che dona la vita e il cui focolare, assorbendo tutti questi esseri, li riporta all’unità.

    Ma si potrebbe obiettare: che cosa significa esattamente l’espressione sole di giustizia, che cosa c’entra la giustizia? Un fatto ci potrà guidare dall’inizio. A Babilonia, Shamash (il Sole) era considerato come il “dio della giustizia” e il “signore del giudizio”. E’ risaputo quanto grande sia stata l’influenza di Babilonia sullo stile dei testi biblici a partire da una certa epoca, e non è del tutto azzardato pensare che “sole di giustizia” abbia in origine questo significato. La stessa regolarità del movimento solare è un’immagine del sole, della giustizia.

    E’ soprattutto nella sua posizione allo zenit, a mezzogiorno, quando divide esattamente la durata del giorno, che il sole appare come simbolo della Giustizia divina: “(Il Signore) Farà brillare come la luce la tua giustizia, come il meriggio il tuo diritto”, canta il salmista (Sal 36 , 6). In questa posizione immobile, immagine dell’istante eterno, il sole è proprio il segno della potenza che domina gli elementi.

    D’altra parte egli è il simbolo della giustizia perché la Scrittura dice: “Il Padre vostro celeste fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 5, 45); questo “Occhio del mondo”, per dirla con Ovidio, infinitamente al di sopra di tutte le condizioni terrestri, rivela con la sua luce le diverse azioni degli esseri e li giudica con un rigore impassibile. Infine, è in quanto saggezza solare che Cristo ci dona la Legge e ci rende “giusti” e “figli della luce” (Lc 16, 8; Gv 12, 36), ed è per questo che egli sarà il signore del giudizio e colui che aprirà il Libro in cui nulla rimarrà nascosto.

    Questa allusione al “giudizio” parlando del Cristo-Sole è in diretta relazione con il Suo ruolo alla fine dei tempi. Ma in attesa della fine dei tempi, il Cristo-Sole è il “signore del tempo”, il Chronocrator”, di cui Egli regola lo scorrimento».

    • alessio ha detto:

      Parlo per mia estetica personale.
      Mi pare , se non mi sbaglio , che
      un pontefice abbia vietato
      l’uso delle trombe nella
      liturgia , il che è un vero
      peccato , perché secondo
      me la grande musica
      austriaca ha raggiunto
      vette inarrivabili di
      purezza e virilità.
      Parlo di quelli che conosco io;
      ascoltate se volete,
      per esempio,
      la missa gratias agimus tibi
      di Zèlenka o le
      missa salisburgensis e
      missa bruxellensis di
      h.i.f Biber su
      you tube.
      Saluti a tutti .